Buddha successivamente alla sua illuminazione, non ha fatto altro che insegnare solo una cosa.
Come risolvere il problema della sofferenza.
Lo ha fatto insegnando a tutti i livelli, partendo dalle quattro nobili verità, e via via nel corso degli anni, a seconda dei discepoli e gli uditori dei suoi sermoni, percependo la capacità di comprensione di chi lo ascoltava ha introdotto temi e argomenti sempre più sottili e profondi.
Non ci ha nascosto nulla, semplicemente ci ha detto: ” Provate da voi stessi ”
Il suo ” Dharma ” ( riprendendo e riscoprendo da lui stesso un percorso già attivo nella civiltà pre-ariana ) è stato e lo è tutt’ora un mix di componenti che non solo presupponevano la meditazione seduta come architrave del tutto, ma insieme ad essa, aggiungeva (Sila) la moralità, l’etica (i precetti) il pentimento dei propri errori e fondamentalmente con l’ottuplice sentiero ci ha fornito la Via da seguire per emanciparci da Dukkha.
Dopo questo piccolo ma necessario cappello,la domanda è:
“Che cosa siamo veramente disposti a fare per risolvere la nostra sofferenza ?
Mi sembra evidente che zazen se inteso come una tecnica o come corroborante per un sollievo psichico di se e per se non è sufficiente. Scrivo zazen ma potrei scrivere altre forme di ricerca. Se fosse così tutti quelli che percorrono una ricerca sarebbero persone stranamente serene e felici, ma di fatto a parte pochi casi, riscontro una specie di assuefazione alla pratica e pochi passi verso l’emancipazione.
Di solito quando iniziamo la pratica, subitamente ne avvertiamo tutti i disagi sia fisici che psicologici.
In questo senso abbiamo e forniamo strumenti di resistenza, che molto spesso ci portano ad un abbandono della pratica, ma se rimaniamo e non siamo attenti, quegli stessi strumenti che prima si opponevano al disagio, si adattano al disagio stesso e alla fine sono il nostro comodo abito di ricercatori spirituali.
Zazen non è una tecnica, non è un passatempo, non è un hobby, non è un gioco e ne tanto meno è comodo. Se ad un certo punto dopo tanti anni di pratica non cominciamo a percepire in noi stessi, la compassione, la gioia, il sorriso, la libertà interiore, dovremmo cominciare a chiederci cosa non va nella nostra ricerca.
Io penso e credo fermamente che spiritualità, significhi affrancarsi nuovamente con il senso del (divino) e depositare in noi stessi una leggerezza e un senso di gioia e gratitudine che pur riconoscendo la difficoltà del vivere riesce in qualche modo a non essere avviluppata dal dolore che nella vita è presente.
Zazen è la possibilità che offriamo o ci viene offerta di entrare in contatto con la profondità della nostra psiche.
Non mi stancherò mai di scriverlo o dirlo, che se davvero vogliamo risolvere il problema della sofferenza, dobbiamo essere disposti a tutto. E per tutto intendo prendere contatto con la nostra finitudine, l’impermanenza, riconoscere con umiltà la nostra imperfezione, pentirci della sofferenza che abbiamo causato a noi stessi e agli altri con la nostra condotta morale, e non con un atto volitivo ma con il cuore. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri drammi interiori e risolverli, significa scendere nel buio, capacitarci della nostra fragilità e l’orgoglio che la maschera, significa saper piangere, saper amarsi nonostante tutto, e in ultima analisi, accettarci per quello che siamo, per quello che abbiamo ricevuto, e fondamentalmente morire a noi stessi.
Diversamente saremmo e siamo una nuova maschera, indossata ad uso e consumo di un (ego) che ci ha fregato di nuovo.
Andremmo e andiamo in giro pavoni della nostra posizione all’interno di questa o quella dottrina, tronfi di carriera, o semplicemente vanesi di fare o essere praticanti zen.
Diversamente staremmo e stiamo perdendo il nostro tempo e come dice la Maestra Shundo Aoyama ci riempiremmo e ci riempiamo la bocca di parole, lontani dalla Verità e orgogliosi di noi stessi, e ahimè cosa ancora più grave,come dice il proverbio:
Non è l’abito (comodo) che fa il monaco….
Ma la purezza del cuore.
Massimo sodo Chinzari