Dialogo inter-religioso Dogen San Francesco e San Giovanni della Croce a confronto Tesi e riflessioni di Padre Celestino Cavagna

Dialogo inter-religioso

Dogen, San Francesco e San Giovanni della Croce a confronto

Tesi e riflessioni di Padre Celestino Cavagna

Salvezza attraverso l’Esperienza
della Morte

Celestino CAVAGNA

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1) Prefazione

2) San Francesco

3) Periodo storico in cui visse Dogen

4) Lo Zen in Cina nel periodo Sung.

5) La vita di Dogen.

6)Le opere e il pensiero Zen di Dogen

Introduzione

7) La Grande Morte nel Buddhismo

8) L’esempio di San Giovanni della Croce

9) Pratica della Meditazione Zen

Prefazione

Durante gli studi teologici ho avuto modo di studiare un po’ le altre
religioni, e in particolare sono stato attratto fin dall’inizio dal
Buddismo.
Un missionario tornato dal Giappone ci parlò dello Zen e in
quell’occasione ci sedemmo insieme in meditazione. Incrociare le
gambe, svuotare il cuore da ogni pensiero e stare seduto immobile era la mia prima esperienza di meditazione Zen.
Fu per me come una nuova scoperta. Mi sembrava che fosse quello che il mio corpo e il mio cuore cercavano da tempo. Per qualche tempo continuai a sedermi in posizione Zen seguendo le indicazioni di quel missionario e leggendo qualche libro per conoscere un po’ questo mondo.

Dopo l’ordinazione presbiterale, in occasione dell’invio in missione,
probabilmente questo mio interesse per il Buddismo Zen ebbe influsso per scegliere come missione il Giappone. E in Giappone, oltre al lavoro missionario ebbi la possibilità di ricevere un’ottima guida nella meditazione Zen, prima dal gesuita P.Lassalle e poi dal maestro Yamada Koun di Kamakura.

Oltre alla pratica cominciai a studiare Buddismo Zen all’Università
Komazawa di Tokyo per avere anche una comprensione culturale di esso.
Molte volte mi fu fatta la domanda: “Come può? un cristiano, e
specialmente un prete studiare Buddismo e praticare meditazione Zen?”.
Certamente quando si e’ troppo attaccati al pensiero e alla forma
esterna della propria religione si evita di avere contatti con le
altre religioni. Però? a me sembra che da circa 20 anni a questa parte
si sia sviluppato un movimento di apertura, e gli uomini cerchino di
superare barriere di razza, nazionalità e religione per un mondo
unito nella pace e nel rispetto vicendevole.

In questo movimento di apertura vorrei porre il Concilio Ecumenico
Vaticano II (1963-65), in cui la Chiesa Cattolica si e’ rinnovata
nella mentalità, nella liturgia e nell’organizzazione. Nei documenti
del Concilio si nota anche attenzione al dialogo inter religioso e al
bisogno di conoscenza e interscambio con le altre religioni.
Nella Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non
cristiane “Nostra Aetate” si legge:

La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto e’ vero e santo in queste
religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di
vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti
differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non
raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti
gli uomini. Essa però’ annuncia, ed e’ tenuta ad annunziare, il Cristo
che e’ “via, verità e vita” in cui gli uomini devono trovare la
pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a se stesso
tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi Figli affinchè, con
prudenza e carità, per mezzo del dialogo e la collaborazione con i
seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana essi riconoscano, conservino e facciano
progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si
trovano in essi.

In questi 20 anni altre volte sono state fatte dichiarazioni simili.
Per fare solo un esempio, nella dichiarazione ufficiale a chiusura
della prima assemblea plenaria della Federazione delle Conferenze
Episcopali Asiatiche (FABC) svoltasi a Taipei dal 22 al 27 aprile 1974
si dice:

La Chiesa Locale e’ una chiesa incarnata nella gente, una chiesa
indigena e inculturata. E questo significa in concreto una chiesa in
continuo, umile e amoroso dialogo con le tradizioni vive, le culture,
le religioni – in breve con tutte le realtà vive della gente in mezzo
a cui ha affondato profondamente le sue radici e di cui fa propria la
storia e la vita. Cerca di partecipare in ogni cosa che veramente
appartiene alla sua gente: i suoi significati e i suoi valori, le sue
aspirazioni, i suoi pensieri, il suo linguaggio, i suoi canti e le sue
manifestazioni artistiche. Perfino le sue debolezze e gli sbagli essa
assume, perchè è possano essere sanati.
Nello stesso modo il Figlio di Dio assunse la totalità della nostra
condizione umana caduta (eccetto che per il peccato) in modo che Egli potesse veramente farla propria e redimerla nel suo mistero pasquale.
In Asia questo comporta specialmente un dialogo con le grandi
tradizioni religiose della nostra gente. In questo dialogo noi le
accettiamo come significanti e come elementi positivi nell’economia
del disegno divino di Salvezza. In esse riconosciamo e rispettiamo
profondi significati e valori spirituali ed etici. Per molti secoli
esse sono state il tesoro dell’esperienza religiosa dei nostri
antenati, e da cui i nostri contemporanei non cessano di attingere
luce e forza. Esse sono state e continuano ad essere l’autentica
espressione dei più nobili desideri del loro cuore e il luogo della
loro contemplazione e preghiera. Esse hanno aiutato a dare forma alla storia e alla cultura delle nostre nazioni

Seguendo questi ed altri consigli simili, molti cristiani e missionari
in tutto il mondo hanno cominciato a studiare le altre religioni, ad
approfondirne il pensiero e l’insegnamento, a praticarne il modo di
pregare e di meditare. Anche in diversi istituti missionari si
consiglia che in ogni nazione qualche missionario entri in dialogo in
modo specializzato con le religioni del luogo.

Il tema di questa tesi di licenza di buddismo all’Università Komazawa di Tokyo e’ un confronto fra Zen e Cristianesimo; però invece di paragonare le due religioni in modo completo ho preferito accostare Francesco d’Assisi (1181-1226) e il maestro Dogen (1200-1253),èvissuti nello stesso periodo.
Una volta che stavo praticando meditazione Zen allo Zendo San’Un di Kamakura, il maestro Yamada Koun citò le seguenti parole dall’opera ShoboGhenzo di Dogen:

So con certezza: il mio cuore sono i monti, i fiumi e la terra; sono
il sole, la luna e le stelle

La spiegazione che diede il maestro Yamada fu la seguente: Il cuore
qui indica tutto il proprio essere, e Dogen si sente in profonda
unità, si sente una cosa sola con la natura e con tutto l’universo.
E’ come se dicesse: “Io sono i monti, i fiumi e la terra; sono il
sole, la luna e le stelle.”
Sentite queste parole mi e’ venuto subito in mente il Cantico delle
Creature di Francesco. Nel cantico, Francesco chiama il sole fratello
e la luna sorella. In lui non c’e’ l’espressione Io sono un tutt’uno
col sole e con la luna. Se avesse detto “Io sono il sole, sono la
luna”, questo non avrebbe avuto senso secondo la filosofia e la
mentalità occidentale; se l’avesse detto sarebbe stato preso per
pazzo. Già i contemporanei lo definirono “pazzo” per il suo
comportamento prima di scoprire in lui il “santo”. Francesco chiamando tutte le creature fratelli e sorelle esprime la sua unità’ spirituale con esse, anche lui sentiva di essere una cosa sola e di vivere in intima unione con la natura e tutte le creature dell’universo.

San Francesco

Queste sono le parole del Cantico delle Creature:

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfane,
et nullu homo ene dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo quale e’ iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu e’ bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ai formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et et onne tempo,
per lo quale a le Tue creature dai sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua,
la quale e’ multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello e’ bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke’l sosterrano in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovara’ ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no’l farra’ male.
Laudate et benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

Poiche’ il maestro Dogen e Francesco appartengono a mondi e culture diverse, naturalmente non usano le stesse espressioni, però a parte le idee e le parole, mi pare che fossero in una simile posizione di Satori

La grande illuminazione di aver dimenticato e annientato il proprio Io e essere diventati un tutt’uno con gli altri uomini e con tutto
l’universo e’ il loro punto in comune. Attraverso una ricerca
comparata vorrei approfondire questa grande percezione di unità conl’universo e le creature in Francesco e Dogen, inquadrandoli nella situazione storica e religiosa del loro mondo.

3) Periodo storico in cui visse Dogen

Il periodo in cui visse Dogen, in Giappone e’ chiamato Epoca di
Kamakura e fu un periodo di disordini politici e di lotte. Nel 1185
scomparve dalla scena politica la famiglia Taira, e approfittando
dell’indebolimento del potere imperiale, Minamoto Yoritomo inizio’ a Kamakura il Bakufu, il governo militare dei Generali (Shogun), e
organizzò una nuova struttura politica. Questo e’ conosciuto anche
come il potere della classe dei samurai, e continuA? fino alla
scomparsa del Bakufu nel 1333. All’interno della struttura politica
del Bakufu, gli organi piu’ importanti erano tre: il Samuraidokoro (il
Dipartimento dei Samurai), che presiedeva a tutto l’apparato militare e poliziesco; il Kumonjo (il Dipartimento degli Affari Pubblici e della Cultura), che presiedeva ai normali affari di stato, e il
Monchujo (la Corte Suprema di Giustizia) che presiedeva a tutti gli
affari legali. I problemi piu’ importanti erano risolti dai direttori
di questi tre Dipartimenti, ma le decisioni ultime spettavano a
Yoritomo stesso e in seguito ai successivi generali.
Inoltre in ognuno dei Kuni, le regioni che formavano il Giappone,
furono inviati dei Jito (Amministratori Generali) e Shugo
(Governatori). In ogni Kuni c’era un Shugo, e per questo incarico
furono scelti i samurai che avevano avuto meriti particolari nella
formazione del governo militare. Il loro compito di essere la forza
dell’ordine e il controllo degli altri samurai, investigare e
arrestare i traditori e gli omicidi. I Jito, anche questi scelti fra i
samurai, erano incaricati dei latifondi in ogni regione, raccoglievano
anche le tasse, amministravano i terreni, e avevano anche il compito
di mantenere l’ordine e giudicare le cause di liti nel loro latifondo.

Il Bakufu di Kamakura era basato completamente sul rapporto di stretta fiducia e obbedienza fra i generali e le famiglie di samurai. E questa unione permetteva loro di controllare e dominare tutto il Giappone. Le famiglie di samurai che avevano promesso obbedienza ai generali erano chiamate Gokenin ed erano la base che sosteneva tutto il sistema del Bakufu. In questo sistema feudale, i Gokenin assicuravano fedeltà e servizio ai generali e questi dimostravano in vari modi la loro gratitudine ai samurai. Come gratitudine i generali difendevano i loro possedimenti, oppure donavano nuovi possedimenti a coloro che si erano distinti per meriti militari, oppure affidavano loro incarichi importanti di Jito o di Shugo. In compenso il servizio dei samurai consisteva in tempo di guerra in una pronta obbedienza agli ordini dei generali e nel fornire forze umane e materiali; invece in tempo di pace consisteva nel fornire guardie per proteggere il palazzo imperiale di Kyoto e il quartiere generale di Kamakura, inoltre sostenere le spese di mantenimento e riparazioni di questi due luoghi,e le spese per i templi shintoisti, per le cerimonie e le feste.

Dopo che nel 1199 Minamoto Yoritomo morì di malattia, e pian piano sparirono gli altri generali della famiglia Minamoto, la famiglia
Hojo, vincendo gli altri potenti generali riuscì a prendere il potere
e instaurò il suo nuovo governo. Hojo Tokimasa e Yoshitoki padre e
figlio, riuscirono ad uccidere Yorie e Sanetomo della famiglia
Minamoto, che erano diventati generali dopo Yoritomo e in breve tempo riuscirono a distruggere anche le famiglie dei samurai rimasti fedelia Yoritomo.Nel 1203 Hojo Tokimasa prese il comando supremo del Mandokoro, il ministero degli Affari di Stato che prima era chiamato Kumonjo, e ilfiglio Yoshitoki aiutando nel Mandokoro prese il comando supremo del Samuraidokoro (Esercito e Polizia). Così pur rimanendo di nome il Bakufu, in realtà tutto il potere era in mano alla famiglia Hojo.

A Kyoto le famiglie nobili, i templi buddisti e shintoisti fedeli al
palazzo imperiale si sostenevano economicamente con i latifondi cheavevano da lungo tempo, ma ne persero molti e si indebolirono
economicamente per la prepotenza dei samurai fedeli alla famiglia
Hojo. In quel periodo l’imperatore a riposo Gotoba tentA? di
restaurare il potere imperiale, e aumentò le forze militari nella
regione del Kansai. Questo pero’ causò subito l’opposizione da parte di Hojo Yoshitoki. L’imperatore Gotoba ordinò l’esilio di Yoshitoki,e questo causò lo scoppio della rivolta detta di Shokyu, dal nome della dinastia del momento (1221). Ma i samurai che obbedirono all’imperatore furono pochi, molti di più rimasero fedeli a Yoshitoki, per lo stretto legame di fiducia e obbedienza che era stato imposto, e le forze imperiali furono sconfitte. Come risultato di
questa rivolta il potere dell’imperatore e dei nobili subì una
ulteriore perdita mentre si rinsaldA? il potere della famiglia Hojo, e
l’invasione dei latifondi dei nobili da parte dei samurai aumento’. I
tre imperatori a riposo Gotoba, Juntoku e Tsuchimikado furono
esiliati. I loro territori, quelli dei nobili, dei samurai e dei
templi che erano stati loro alleati furono confiscati e dati ad altri
samurai fedeli alla famiglia Hojo.

Tutti questi disordini politici, guerre e rivolte certamente
esercitarono un influsso sul giovane Dogen. Anche la rivolta di
Shokyu aveva per centro Kyoto dove Dogen abitava. E la sua famiglia,specialmente il padre Michichika aveva uno stretto legame di parentela con la famiglia imperiale, e in questa rivolta diversi dei suoi parenti ebbero una fine sfortunata. Ogni giorno sentendo notizie dell’esilio dei tre imperatori, di esecuzioni e di esili di samurai e nobili, Dogen che era nel suo piA? importante periodo di formazione,assaporò?’ profondamente l’instabilità e la vanità di questo mondo.

Dopo la morte di Hojo Yoshitoki, al governo successe Yasutoki, molto dotato di capacità politica. Egli riformò il Bakufu e nel 1232 per risolvere il problema delle cause legali delle famiglie di samurai,
sempre in aumento, fece pubblicare il Codice Joei (dal nome
dell’anno), appositamente inteso per la classe dei samurai. Dopo di
lui successe Tokiyori, che si sforzA? di migliorare la relazione fra
la Corte Imperiale e il Bakufu fino a far nominare Generale ed
accogliere nel Bakufu Munetaka Shinno, figlio dell’imperatore GoSaga.Da questo momento fino alla fine del Bakufu nel 1333 si successero quattro Generali membri della famiglia imperiale.

Il giovane Generale Tokiyori nel 1247 invitò Dogen a Kamakura e
ricevette da lui i Precetti del Bodhisattva Cercò anche di fermare
Dogen a Kamakura perchè educasse nella via dello Zen la classe
militare, ma poichè Dogen rifiutò e tornò a Eiheiji, Tokiyori
invitò il maestro cinese Rankei Doryu e fece costruire il monastero
Kenchoji.

Pur essendo l’Epoca di Kamakura un periodo politicamente molto
travagliato, nella produzione agricola vi fu uno sviluppo: i prodotti
dei latifondi venivano commerciati in ampie zone e si vide un notevole incremento di mercati e negozi. Inoltre fu particolarmente notevole lo sviluppo della circolazione della moneta, del commercio e dell’attività finanziaria. Ancora il commercio fra il Giappone e la
Cina esercitò un grande influsso sull’economia giapponese. Il Bakufu
di Kamakura era molto interessato agli scambi con la Cina meridionale e sotto il controllo del Governatore del Kyushu le navi facevano la spola fra il porto di Hakata (Fukuoka) e la provincia Ming, esportando legname, zolfo, spade, ventagli oggetti in lacca, ecc. e importando spezie, medicinali, porcellane, tessiture in seta, manoscritti, monete cinesi.

Fin dalla fine dell’epoca Heian vi fu un susseguirsi di guerre che
portarono la popolazione a un’estrema insicurezza e ansietà. La
nobiltà rappresentante del vecchio regime si era indebolita e le
vecchie correnti buddiste Tendai e Shingon Shinran (1173-1262). Si
basA? fondamentalmente sul pensiero di Honen della Scuola della Terra Pura, ma fondò la Vera Scuola della Terra Pura. Diede importanza all’atto di fede totale (Shinjin) nella forza salvifica di Amida Buddha, più che al recitare il Nenbutsu, le varie forme di esso e il numero di volte di recitarlo.

Eisai (1141-1215). PortA? dalla Cina della dinastia Sung
l’insegnamento Zen della Scuola Rinzai, un insegnamento che pone al centro la meditazione (Zazen) e la concentrazione sugli aneddoti degli antichi maestri (Koan), come mezzo per arrivare all’illuminazione è (Satori).
A Kamakura egli iniziò alla fede buddista il secondo generale
Minamoto Yoriie e sua madre Hojo Masako, e apri’ a Kamakura il
monastero Jufukuji e a Kyoto il monastero Kenninji. La sua corrente si diffuse presto in tutto il Giappone e fra i suoi seguaci vi sono a
Kamakura Rankei Doryu iniziatore del monastero Kenchoji e MugakueSoghen iniziatore del monastero Enkakuji; a Kyoto Enni Ben’en iniziatore del monastero Tofukuji. Rimane un problema non risolto se il giovane Dogen abbia incontrato direttamente o meno Eisai a Kyoto,ma in ogni modo Dogen ricevette fortemente l’influsso del pensiero di Eisai attraverso il suo successore Myozen. Per altro verso, quando il monastero Tofukuji iniziato da Enni arrivò alla massima prosperità,è Dogen che dopo il ritorno dalla Cina aveva aperto li vicino il monastero Koshoji fu notevolmente disturbato e costretto a trasferirsi.

Ippen (1239-1289). IniziA? la Scuola del Momento, intendendo che il
mondo nel momento attuale era in estremo bisogno dell’insegnamento buddista della Terra Pura. Egli era solito girare ovunque per tutto il Giappone recitando il Nenbutsu (il nome del Buddha) e danzando, e per questo fu chiamato “Il Monaco Vagante”.

Nichiren (1222-1282). Egli iniziA? la Scuola del Loto (Hokkeshu o
Nichirenshu). Ricevette la sua formazione al monastero Hieizan e come è la tradizionale Scuola Tendai pose al centro dell’insegnamento il Sutra del Loto, però affermò la necessità della pratica religiosa
più che lo studio e le discussioni religiose. Insegnò anche il
“Sokushin-jobutsu” (Salvezza immediata) la possibilità di diventare
un Buddha immediatamente, recitando le parole “Namu-myo-ho-renghe-kyo” (Venero il meraviglioso insegnamento del Sutra del Loto).

Lo Zen in Cina nel periodo Sung.
Dogen, come tutte le persone del suo tempo, sentiva profonda
incertezza per i travagli sociali, e dal buddismo del tempo non
riusciva ad ottenere la soluzione al problema religioso che sentiva.
In particolare, dopo la formazione nel buddismo Tendai al monastero di Hieizan, studiò il pensiero e la pratica Zen del maestro Eisai al monastero Kenninji, e per approfondire questo andò a studiare lo Zen direttamente in Cina. Ma qual’era la situazione dei monasteri Zen nella Cina della dinastia Sung?

In Cina, fin dall’inizio della dinastia T’ang (618-907) era molto
fiorente la corrente del Sesto Patriarca Eno con la teoria
dell’improvvisa illuminazione sviluppatasi nel sud (specialmente con i discendenti di Seighen Gyoshi e Nangaku Ejo due dei discepoli di Eno).
Ma quando si arrivò al periodo delle Cinque Dinastie (907-960) e
anche durante la dinastia Sung del Nord (960-1127), lo Zen cinese si
divise nelle Cinque Scuole e Sette Case. Le Cinque Scuole sono: nella
discendenza di Nangaku la Scuola Rinzai che prese il nome dal maestro Rinzai Ghighen; la Scuola Igyo che prese il nome dai due maestri Isan Reiyu e Kyozan Ejaku; e nella discendenza di Seighen la Scuola Soto è che prese il nome dai due maestri Tozan Ryokai e Sozan Honjaku; La Scuola Unmon che prese il nome dal maestro Unmon Bun’en; e la Scuola Hoghen che prese il nome dal maestro Hoghen Bun’eki. Le Sette Case indicano le Cinque Scuole piu’ la Corrente Yoghi e la Corrente Oryu in cui più tardi si devise la Scuola Rinzai.

Con l’inizio della dinastia Sung per prima la Scuola Igyo venne a
finire e anche la Scuola Hoghen si indebolì. Dapprima la Scuola Unmon era fiorente, ma poi la Corrente Oryu e la Corrente Yoghi della Scuola Rinzai si diffusero dappertutto. La Scuola Soto era all’inizio molto debole, poi con il susseguirsi dei tre maestri Fuyo, Wanshi eShinghetsu riprese vigore ma eventualmente non riuscì a sopravvivere a lungo.

Fra gli eventi principali dello Zen Cinese della dinastia Sung
dobbiamo ricordare la composizione del “Keitoku Dentoroku” e “Seccho Juko” e l’affermarsi dei due metodi “Zen dell’Illuminazione
Silenziosa” di Wanshi Shogaku e “Zen della Concentrazione sui Koan” di Daiei Soko.

Keitoku Dentoroku. E’ la Cronaca della Trasmissione dell’Insegnamento
Buddista redatta nell’anno primo Keitoku (1004) da Eian Dogen, e fu
subito inserita nel Daizokyo Questa cronaca, si baso’ su altre
cronache precedenti come Horinden e Sodoshu e fu la prima delle cinque cronache conosciute come “Goto”, le Cinque Cronache dell’Insegnamento.
Siccome vi si riportano le brevi biografie di 1701 maestri, è
derivato da qui il numero comunemente conosciuto di 1700 Koan dello Zen.

Poco dopo (1129), il maestro Seccho Juken della Scuola Unmon compose l’opera Seccho Juko, (I Versi di Seccho), che esprime in poesia il mondo del Satori, la realtà èvista dai maestri illuminati. Engo
Kokugon (1063-1135) aggiunse un commento a ognuno dei 100 brani e due secoli più tardi (1300) fu ripubblicata con il titolo
“Hekiganroku” (Cronaca della Scogliera Azzurra). A proposito di
quest’opera una leggenda dice che Dogen riuscì a trovarne una copia quando stava per lasciare la Cina e tornare in Giappone. Cominciò subito a trascriverla ma non aveva speranza di finire il lavoro in tempo, quando gli apparse un angelo dalle bianche vesti che lo aiutò e finì in una notte la trascrizione.
Proprio in questo periodo iniziA? in Cina la stampa, per cui la
dimensione degli scritti si ridusse, e le cronache storiche e gli
insegnamenti dei maestri si diffusero molto rapidamente, permettendo a molti monaci un facile accesso allo studio delle opere più famose.

In quest’epoca si diffusero particolarmente i due metodi di
meditazione Mokusho-Zen e Kanna-Zen, e i sostenitori dei due metodi erano sempre in competizione criticandosi aspramente l’un l’altro.
Il metodo Mokusho-Zen, o della Illuminazione Silenziosa fu reso
popolare dal maestro Wanshi Shogaku, successore di Tanka Shijun che fù in carica per piu’ di 30 anni al monastero Tendozan. Questo metodo da poca importanza al meditare i Koan, gli aneddoti degli antichi maestri, ma da’ importanza al solo sedere in meditazione. Affermando la purezza della natura umana originale, non ricerca nulla, neppure il Satori, ma ha come scopo l’essere sempre a contatto con il Se, nella sua natura originale pura e in piena libertà interiore. Anche il maestro Nyojo, che Dogen dopo tante ricerche scelse come il vero maestro seguiva questo metodo ed egli pure fu in carica del monastero Tendozan un po’ di tempo dopo Wanshi.
D’altra parte Daiei Soko (1089-1163), discepolo di Engo Kokugon,
inizio’ il metodo Kanna-Zen. Questo metodo, detto anche della
Concentrazione sui Koan, pone come obiettivo della pratica religiosa il raggiungere il Satori concentrandosi e lasciandosi stimolare dai Koan per superare il livello razionale e ottenere l’intuizione diretta. Ma la critica vicendevole non era fatta dai due iniziatori Wanshi e Daiei, che peraltro erano in rapporto amichevole, quanto piuttosto da Shinghetsu Seiryo, discepolo di Wanshi e Daiei Soko, è ancora di piu’ dai rispettivi discepoli. Questa opposizione continuo’anche in seguito e ancor oggi questi due metodi distinguono le due principali scuole Zen del Giappone attuale. In un certo senso si puo’dire che la Scuola Rinzai segue di più il metodo Kanna-Zen e la Scuola Soto segue di più il metodo Mokusho-Zen. Però questi due metodi provengono entrambi dalla scuola del Sesto Patriarca Eno, percui più che una differenza di contenuti dell’insegnamento bisogna vederli come una differenza di metodo nella guida alla pratica religiosa nella formazione monastica.

Lo Zen della dinastia Sung e’ caratterizzato da diversi aspetti
negativi: una formalizzazione del pensiero Zen; una presenza notevole di membri della nobiltà fra i monaci e nei templi, e una conseguente secolarizzazione. Dogen passò circa due anni e mezzo in Cina girando numerosi monasteri, specialmente della scuola di Daiei, e praticando la meditazione con il massimo impegno, sempre ricercando un maestro vero. Ma non riuscendo a trovare quello ideale che lui cercava, ormai deluso stava pensando di tornare in Giappone.
Per un altro verso bisogna ricordare che durante la dinastia Sung la
pratica dello Zen si era molto diffusa anche fra la gente comune e
questo insegnamento esercitava un grande influsso anche sugli altri
gruppi religiosi. Il pensiero Zen contribuì specialmente alla
formazione dello Zenshinkyo la religione della Verità Totale, uno dei
movimenti di rinnovamento del Taoismo. Inoltre fu un’epoca in cui
Confucianesimo, Taoismo e Buddismo, le tre principali religioni cinesi cercavano l’armonizzazione con un dialogo vicendevole.

A�5) La vita di Dogen.

Per quanto riguarda la vita di Dogen, la ricerca continua sempre,
perchè a causa della scarsità di materiale originale ci sono alcuni
punti che non si riescono a chiarire. Seconda la tradizione sono 6 i
punti su cui non si puA? fare un’affermazione sicura:
1) Dove e quando con precisione e’ nato e chi erano i suoi genitori;
2) Da giovane fu molto influenzato dal pensiero Zen di Eisai ma lo
incontrA? mai direttamente?
3) Fra le diverse esperienze mistiche di cui egli parla, qual’e’ che
si puo’ chiamare la sua esperienza di Satori ?
4) Circa la sua opera principale “Shobo-ghenzo”, pensò egli stesso a
un’opera unica oppure erano opuscoli diversi scritti in diverse
circostanze, che i discepoli poi riunirono?
5) Cos’era effettivamente la Scuola Dharma Giapponese, da cui
provenivano i suoi migliori discepoli?
6) Qual’e’ l’origine e il motivo della versione in cinese che scrisse
dello Shobo-ghenzo? Questi punti sono i piu’ discussi dagli studiosi,
ma non si riesce ancora ad avere un’unita’ su di essi.
Dogen nacque a Kyoto nel 1200 (Shoji anno 2). Il padre Koga Michitomo
(o secondo la versione tradizionale il padre di questi, Michichika)
era un discendente dell’Imperatore Murakami (reggente nel 946-957), ma non se ne parla mai. La madre sembra fosse una delle figlie di Matsudono Motofusa della famiglia Fujiwara, che adottò Dogen da piccolo, ma e’ difficile precisarne il nome.
Fin da piccolo egli dimostrò grande interesse per gli studi e la
religione. Si dice che fra i 4 e i 7 anni leggeva alcune delle opere
cinesi piu’ famose, come “Rikyo Zatsuei”, le Poesie di Rikyo (poeta di
corte cinese della dinastia T’ang, 644-713); “Saden”, la tradizione di
Sakyumei (fine della prima dinastia Han, 1 sec. AD); “Moshi”, le
Poesie di Mocho. (poeta della prima dinastia Han, 1 sec. a.C.). A 9
anni cominciA? a studiare il “Kusharon”, (Abhidharmakosa-sastra), una delle opere fondamentali del Buddismo Theravada, scritta da Vasubandhu verso il 450. Inoltre si dice che verso i 18 anni, dopo qualche anno di formazione al monastero Hieizan, aveva già letto 2 volte il Daizokyo, la raccolta di tutti i sutra in 50 grossi volumi. Per questa età aveva studiato tutto quanto si poteva studiare del Buddismo,èl’insegnamento tradizionale Tendai, l’insegnamento del Theravada e del Mahayana e inoltre anche l’insegnamento del Buddismo Tantrico dell’India meridionale. Egli iniziò a rivolgere il suo interesse alla religione verso gli 8 anni.
A otto anni ebbe la disgrazia di perdere la madre. Durante il funerale
vedendo il fumo dell’incenso che saliva dal braciere, improvvisamente capì l’impermanenza delle cose mondane e fece dentro di sè ilproposito di ricercare la Verità entrando nella vita monastica.
Dogen fu allevato in una famiglia di nobili, in un periodo di grandi
travagli politici e sociali. Non si riesce a sapere con precisione
come fu la sua vita da bambino, ma si puA? indovinare che avesse
sempre davanti a sè è la vanità e l’impermanenza di tutto. La morte
della madre fu solo l’occasione che lo spinse verso la vita
religiosa.
A 13 anni, una notte di primavera fuggì di nascosto dalla villa di
Matsudono e arrivò ai piedi del monte Hiei dove chiese l’iniziazione
alla vita religiosa al monaco Ryoken. Poco dopo entrò nel monastero
Hieizan e ricevette la tonsura e i Precetti del Bodhisattva dall’abate
Koen diventando così ufficialmente un monaco, e si impegnò
assiduamente nello studio dei testi buddisti. In particolare fu
attratto dal pensiero Hongaku Homon della Illuminazione Originale, che afferma che l’Uomo e’ originalmente il Buddha stesso. Però a questo punto sorse in lui una grande domanda: Se l’uomo all’origine e’ il Buddha stesso, perchè non riesce a vivere come tale, ma ha bisogno di una lunga pratica religiosa per capire questo?
Studiando l’essenza della religione e l’insegnamento del Buddhismo ho conosciuto che la propria natura e’ una cosa sola con la Verità
Assoluta Originale. Sia il Buddismo tradizionale che il Buddismo
esoterico insegnano questa stessa cosa. Qui sorge un grande dubbio: SeAl a propria natura e’ la Verità Assoluta, perchè i Buddha di ogni tempo hanno bisogno di diventare monaci e impegnarsi nella pratica religiosa?
Dogen credeva fermamente all’Illuminazione originale e all’idea che
Questo-Stesso-Corpo-A?-il-Buddha (Sokushin-zebutsu), però allora a
cosa serve lo studio, la morale e l’attività religiosa? Non riuscendo
a trovare risposta a questo grande dubbio per quanto studiasse, a 18
anni lasciò il monastero Hieizan e dopo essersi consultato con il
monaco Koin al tempio Miidera, decise di andare in Cina per imparare l’insegnamento Zen, detto anche “il Sigillo del Cuore del Buddha”,ancora poco conosciuto in Giappone. Preparandosi ad andare in Cina,peraltro a quel tempo un’avventura per niente facile, andò al monastero Kenninji aperto dal maestro Eisai che aveva portato per la prima volta l’insegnamento Zen in Giappone, e continuò la pratica religiosa con Myozen, un discepolo di Eisai. Nel 1221, a causa della rivolta di Shokyu, che a Kyoto travolse la vita della corte imperiale e della nobiltà la partenza di Dogen per la Cina fu ritardata. Fù solo nella primavera del 1223 che egli insieme a Myozen (discepolo di Eisai), partiti da Kenninji poterono imbarcarsi ad Hakata verso la Cina.

Raggiunta la costa della provincia Ming dovette aspettare tre mesi
prima di poter ottenere il permesso di sbarcare ed entrare nella
provincia. E’ di questo periodo il famoso episodio raccontato
nell’opera “Tenzo-Kyokun” (Istruzioni al monaco cuciniere). A Dogen
che era venuto in Cina cercando la risposta al problema più grande di
tutta la sua vita, un vecchio monaco cuciniere venuto dal monastero di
Aikuozan per comperare dei funghi giapponesi in vendita sulla nave
dov’egli era, gli fece capire che la verità che egli era venuto a
cercare fin lì, non era lontana dalla “vita quotidiana”. Sia dalle
parole di questo vecchio monaco che dall’insegnamento del famoso
maestro Musai Ryoha della Scuola di Daiei nel monastero Tendozan,
allora famoso in Cina e sotto la cui guida Dogen si mise, capì che
non bastava la formazione intellettuale per ottenere l’illuminazione,
ma era necessaria una intensa pratica religiosa fondata nella vita
quotidiana.
Ebbe la possibilità di vedere dei Shisho, genealogie di discendenza
dal Buddha secondo il Dharma, che i maestri davano ai loro discepoli
come riconoscimento dell’esperienza di Satori. L’anno seguente, dopo
che il maestro Musai morì Dogen lasciò il monastero Tendozan e si
mise in viaggio per visitare i vari monasteri Zen alla ricerca di un
maestro vero per poter approfondire l’essenza dell’insegnamento del
Buddha.
L’esperienza di Tendozan gli servì molto: dovunque andava la sua
pratica religiosa e la sua comprensione della Verità veniva
apprezzata, e più di un maestro gli chiese di diventare suo
successore, cosa che Dogen rifiutò sempre. Non aveva interesse a
diventare l’abate di monasteri pieni di monaci provenienti dalla
nobiltà , dove le cerimonie religiose erano il centro dell’attività.
Per due anni e mezzo continuò a visitare monasteri diversi,
impegnandosi al massimo nella meditazione dovunque andava, e sempre
alla ricerca del maestro ideale.

Proprio in quel periodo il maestro Nyojo divenne abate del monastero
Tendozan, e Dogen quando ormai aveva perso la speranza di trovare il
maestro che cercava e si preparava a tornare in Giappone, consigliato
da un vecchio monaco andò ad incontrare Nyojo. Appena lo incontrò
Dogen intuì che egli era il maestro vero che aveva cercato per tanto
tempo. E anche Nyojo si accorse che il discepolo che chiedeva la sua
guida era eccezionalmente deciso e impegnato, un discepolo come da
tempo non ne vedeva.
Il primo maggio del primo anno Hokyo (1225) della grande dinastia Sung
incontrai per la prima volta il maestro l’abate Tendo nella sua
stanza; bruciai l’incenso e mi inchinai davanti a lui. Anche il
maestro vide me per la prima volta. In quel momento offrendomi
l’insegnamento (menju) disse: “Si sta compiendo qui la trasmissione
della Verità, trasmessa direttamente da Buddha a Buddha, da Patriarca
a Patriarca. Questo e’ il momento in cui Shakamuni Buddha prese in
mano il fiore sul monte Ryo; questo e’ il momento in cui Eka ottenne
il midollo sul monte Su; questo e’ il momento in cui Obai diede a Eno
la veste; questo e’ il momento in cui Tozan trasmise l’insegnamento.
Questa e’ la trasmissione dell’Occhio e Tesoro della Verità dai
Buddha e dai patriarchi. Solo dentro di me c’e’ questo, per altri e’
solo un sogno: ne’ l’han visto ne’ sentito.”
Nel momento stesso in cui incrociò gli occhi col maestro Nyojo,
Dogen intuì con certezza che la verita’ trasmessa dal Buddha era
arrivata a lui. Sul monte Ryo Shakamuni Buddha davanti a centinaia di
discepoli aveva preso in mano un fiore e a quella vista Mahakasyapa,
unico a comprendere la Verità, sorrise. Sul Monte Su il secondo
Patriarca Eka, mostrando soltanto un inchino alla domanda del maestro
Bodhidarma, aveva ottenuto il midollo del suo insegnamento. Il quinto
patriarca Konin, al monastero Obai dando di nascosto la sua veste a
Eno lo aveva dichiarato suo successore. Esattamente nello stesso modo
ora l’essenza della Verità veniva trasmessa dal maestro Nyojo a
Dogen, nell’istante in cui gli occhi si sono incrociati. Si puo’ già
chiamare questa un’esperienza di satori per il giovane Dogen, la cui
pratica di meditazione Zen era arrivata a un alto livello di
maturità, però normalmente la tradizione fissa l’esperienza di
satori di Dogen a un’altro momento.

Nel terzo anno Hokyo (1227), un giorno nel Sodo mentre Dogen era
impegnato al massimo nella meditazione, un altro monaco si addormentò
per la stanchezza. Il maestro Nyojo vedendolo lo sgridò ad alta
voce:
“Questo e’ il momento di dedicarsi completamente alla meditazione,
lasciando cader via il corpo e la mente (Shinjin-Datsuraku), e come
mai tu dormi?”
In quell’istante Dogen che era nella piu’ profonda concentrazione
ebbe un’esperienza di satori. Più tardi andò a trovare il maestro
Nyojo- nella sua stanza e come saluto bruciò l’incenso davanti a
lui.
“Cos’e’ questo bruciare l’incenso?”
gli chiese il maestro.
“Eccomi, il corpo e la mente sono caduti via!”.
Nyojo replicò:
“Il corpo e la mente sono caduti via! Cader via e’ il corpo e la
mente!”
e con queste parole approvò l’esperienza di satori del discepolo.
Questo e’ quanto si legge nella “Seconda Cronaca di Nyojo”. Il corpo e
la mente erano stati liberati da ogni legame e attaccamento ed era
entrato nella dimensione del satori. Quello che in quel momento Dogen
aveva capito con chiarezza e’ che l’essere seduto in meditazione con
impegno, correttezza di posizione e liberi da ogni pensiero e
preoccupazione (Shikantaza), questo stesso e’ il significato di
“Lasciar cader via il corpo e la mente”.
Il tempo trascorso col maestro Nyojo e il suo insegnamento era quanto
Dogen era venuto a cercare in Cina: nell’autunno dello stesso anno si
preparava a tornare in Giappone. Nyojo gli diede il Foglio genealogico
buddista e la veste dichiarandolo con questo suo successore e lo
consigliò, una volta tornato in Giappone di non stare nelle città ma
ritirarsi in eremitaggio sulle montagne e continuare la pratica di
meditazione, aver cura di proteggere il vero insegnamento del Buddha e
diffonderlo fra la popolazione in Giappone.
Tornato in Giappone stette per un po’ al monastero Kenninji di Kyoto,
da dove era partito quattro anni prima. Disse a tutti di non aver
portato a casa nulla dalla Cina, ne’ rotoli di sutra, né statue di
Buddha, come erano soliti fare gli altri monaci che andavano a
studiare in Cina, disse di essere “tornato a casa a mani vuote”.
Quello che ha e’ solo “il Vero Insegnamento del Buddha Trasmesso
Correttamente”. Quasi subito scrisse l’opera “Fukan-

Zazenghi” (Consigli per tutti circa i Principi della Meditazione Zen).
Il suo insegnamento, che diceva essere il vero insegnamento del Buddha
e non voleva accettare i compromessi con le altre scuole, gli creò
fastidi. Presto subì l’opposizione dei monaci di Hieizan e degli
stessi monaci di Kenninji discepoli di Eisai, per cui dovette lasciare
Kenninji e andò ad abitare nel vecchio tempio Gokurakuji a Fukakusa,
nella periferia sud di Kyoto. Qui scrisse l’opera “Bendowa” (Discorsi
sulla Pratica della Via).
Nel 1233 usando una parte del tempio Gokurakuji (il Kannon-doriin)
costruì il suo primo Centro di Meditazione Zen e lo chiamò Koshoji
(Il Tempio per la Prosperita’ del Santo Insegnamento). Nei seguenti
dieci anni in cui rimase a Koshoji si dedico’ soprattutto
all’insegnamento, scrivendo numerosi dei capitoli che formano la sua
opera fondamentale, lo Shobo-ghenzo.
Il monastero Koshoji che Dogen aveva aperto a Fukakusa, divenne
presto famoso come luogo di intensa pratica Zen, in contrapposizione
allo scolasticismo e ritualismo degli altri monasteri. La meditazione
Zen in quel tempo era già conosciuta in Giappone, ma nessun altro
monastero gli dava così importanza da metterla al centro della
pratica religiosa. Da tutta la nazione, monaci di ogni scuola
buddista, nobili di corte e samurai vennero a Koshoji per imparare e
praticare la meditazione Zen. E’ da notare in modo particolare
l’ingresso in massa a Koshoji della Scuola Dharma Giapponese che
comprendeva persone come Koun Ejo, Ekan, Tetsu Ghikai, Ghien, ecc. In
seguito a questo la sua comunita’ religiosa aumento’ in numero e
importanza. Però a partire da questo periodo l’atteggiamento di
Dogen riguardo al metodo Kannazen della corrente Rinzai di Daiei
divenne particolarmente severo, e questo fu per educare e staccare
completamente Ejo e gli altri discepoli provenuti dalla Scuola Dharma
Giapponese dal metodo Kannazen e dal modo di pensare precedente.
Nonostante questo metodo Kannazen fosse molto diffuso in Cina, esso
era il metodo della Scuola di Daiei, ormai secolarizzata e
profondamente legata alla nobiltà. Dogen aveva preferito scegliere
l’insegnamento di Nyojo trasmesso con purezza. Anch’egli per poter
trasmettere questo insegnamento con purezza diventò molto severo nei
confronti del metodo Kannazen.
La comunità di Dogen a Fukakusa aumentava regolarmente di numero e
si sviluppava diventando un centro molto famoso in tutta la nazione, e
non poté evitare le ire e le persecuzioni del monastero tradizionale
Tendai di Hieizan. Per far fronte a questo Dogen scrisse “I Principi
del Vero Insegnamento a Favore della Nazione”, sperando in un appoggio
della corte imperiale, ma fu più forte l’influenza del monastero di
Hieizan e Dogen non riuscì ad avere il riconoscimento ufficiale.
Inoltre nel 1243 Enni ritornò dalla Cina come successore del maestro
Mujun Shian della scuola Rinzai, e proprio vicino a Fukakusa aprì il
monastero Tofukuji, dove proclamo’ il suo insegnamento, che era un
misto del Buddismo tradizionale Tendai, del Buddismo esoterico Shingon
e del Buddismo Zen, ed ebbe subito molto successo. Dogen infine non
poté piu’ sopportare la persecuzione e nello stesso 1243 lasciò il
monastero Koshoji di Fukakusa, trasferendosi sulle montagne della
regione di Echizen, dove era stato invitato dal governatore Hatano
Yoshishighe che aveva molta stima di lui. La partenza da Koshoji
avvenne il 17 luglio, esattamente nel 15x anniversario della morte del
suo maestro Nyojo, e con questo metteva in pratica il consiglio di
Nyojo di lasciare le città e ritirarsi sulle montagne.
Arrivato nella regione di Echizen, l’attuale provincia di Fukui verso
il mar della Cina, si fermò temporaneamente a Yamashibu, poi costruì
un secondo centro di meditazione a Yoshiminedera. Nonostante la
pratica Zen anche a Kyoto fosse severa, per Dogen e i suoi discepoli
la severità era inasprita dal freddo durissimo dell’inverno di quelle
montagne a cui non erano abituati. Per quasi un anno fece la spola fra
Yamashibu e Yoshiminedera continuando a insegnare con forza ai suoi
discepoli nei due piccoli monasteri, e scrivendo circa un terzo (31
capitoli) dello Shobo-ghenzo.
Questo e’ il periodo in cui Dogen si esprime più liberamente e
appare con chiarezza la caratteristica del suo pensiero. Nel
successivo 1244 essendo continuato ad aumentare il numero dei
discepoli e il posto diventava stretto, si trasferì nel vicino tempio
Daibutsuji (il tempio del Grande Buddha, il cui nome sarà poi
cambiato in Eiheiji, attualmente il tempio centrale della corrente
Soto Zen). Daibutsuji, come i precedenti Yamashibu e Yoshiminedera
erano piccoli templi della corrente Shirayama di Tendai e questo fa
pensare che i monaci Tendai di questi luoghi si siano uniti alla sua
comunità. In queste montagne, ormai completamente libero e ottenuto
un luogo ideale, si sforzò di esporre il meglio dell’insegnamento e
di impegnarsi con i suoi discepoli in una fervente pratica religiosa.
Come ultimo ritocco nel 1246 cambiò il nome Daibutsuji in Eiheiji.

Ora, si dice che l’insegnamento buddista fu portato in Cina per la
prima volta nell’anno Eihei 11 della seconda dinastia Han (AD 68), e
chiamando Eiheiji il suo monastero era come se volesse affermare che
il Vero Insegnamento buddista per la prima volta era con lui arrivato
in Giappone.
Nell’agosto del 1247 partì per Kamakura, invitato dal Reggente del
Bakufu Hojo Tokiyori. E’ anche questo qualcosa di strano, che Dogen
abbia lasciato Eiheiji in un momento molto importante per la vita del
monastero per andare nella città centro del governo, in mezzo ai
potenti, qualcosa che lui non avrebbe mai accettato. Qual’e’ il motivo
che lo spinse a questo viaggio? Se ne possono pensare diversi, ma
certamente ha contato anche il suo desiderio di insegnare la Verità e
portare la salvezza a tutti. L’altro consiglio che Nyojo gli diede
prima di tornare in Giappone era di aver cura di proteggere il vero
insegnamento del Buddha e diffonderlo fra la popolazione del Giappone.
Aveva forse Dogen, dopo essere stato rifiutato a Kyoto dal Buddismo
tradizionale e dalla Corte Imperiale, la speranza di essere accolto a
Kamakura e poter diffondere lì il suo insegnamento? Per prima cosa
introdusse alla fede buddista il reggente Tokiyori, e gli impose i
Precetti del Bodhisattva, ma poi rimase deluso dei samurai di Kamakura
che del Buddismo preferivano le preghiere e i riti esoterici e dopo
qualche mese tornò a Eiheiji.
Il freddo dell’inverno sulle montagne e la vita dura di Eiheiji non
giovarono alla sua salute e nell’estate del 1252 si ammalò. La
malattia non accennava a guarire, anzi progrediva e il suo corpo pian
piano si indeboliva. Continuò a scrivere alcuni capitoli dello Shobo-
Ghenzo e infine espresse il suo supremo ideale nel capitolo “Hachi-
Dainin-Gaku” (Gli Otto Aspetti dell’Illuminazione dei Grandi). Nel
luglio 1253 affido’ al discepolo Ejo la responsabilita’ suprema del
monastero di Eiheiji, e partì per Kyoto per curarsi. Il 28 di agosto
del 1253 a 54 anni Dogen moriva, seduto in posizione di meditazione,
nella casa di un discepolo laico.
Le opere e il pensiero Zen di Dogen
Le opere scritte da Dogen sono numerose e riguardano vari aspetti
della pratica religiosa e monastica, ma fra di esse la piu’ importante
e la più conosciuta e’ quella chiamata Shobo-Ghenzo (Occhio e Tesoro
della Verità). Fu scritta nell’arco di 23 anni, iniziando il primo

capitolo “Bendowa” nel 1231 quando lasciò Kenninji per andare a
stabilirsi a Fukakusa, e l’ultimo “Hachi-Dainin-Gaku” nel gennaio 1253
alcuni mesi prima di morire. Fu scritta nella lingua giapponese del
tempo, e questa e’ una cosa molto rara, in un periodo dove la cultura
era fondamentalmente di influsso cinese e specialmente le opere
religiose erano tutte scritte in cinese. Nella scuola Soto Zen
Giapponese fu sempre considerata l’opera fondamentale per lo studio
del pensiero buddista. Il titolo Shobo-Ghenzo potrebbe essere tradotto
“L’Occhio – Tesoro della Verita’”. Shobo e’ infatti la Vera Realtà,
la Verità Assoluta; Ghen e’ l’occhio che riflette ogni cosa e Zo- ,
tradotto qui “Tesoro”, alla lettera e’ il magazzino, che contiene
tutte le cose preziose della famiglia Indica quindi la Verità
Assoluta in cui ogni cosa si riflette e che contiene e protegge tutti
gli innumerevoli esseri dell’universo. Si pensa che Dogen, nonostante
avesse scritto questi capitoli indipendentemente e in varie occasioni,
avesse in mente di formare un’opera completa in 100 capitoli, che
però non riuscì a portare a termine. I discepoli ne fecero diverse
edizioni, man mano che venivano scoperti i rotoli dei vari capitoli.
Fra le principali edizioni ce n’e’ una di 60 capitoli, una di 75 e una
di 95 capitoli. Oltre all’opera Shobo-Ghenzo in giapponese ce n’e’
un’altra breve dello stesso titolo, scritta in cinese e composta da
300 brevi aneddoti.
Fra le altre opere principali, quasi tutte scritte in cinese, sono da
ricordare le seguenti:
“Hokyoki”. (Memorie del periodo Hokyo) scritta nel 1225 (anno 1x Hokyo
della dinastia cinese Sung). Questa raccoglie gli appunti
dell’insegnamento del maestro cinese Nyojo, quando Dogen era sotto la
sua guida al monastero Tendozan.
“Fukan-Zazenghi”. (Consigli per tutti circa i Principi della
Meditazione Zen). Fu scritta nel 1227 a Kenninji appena tornato dalla
Cina. Questi sono i suoi primi insegnamenti circa la meditazione Zen.
E’ un’opera breve e intesa come il libro fondamentale per chi vuole
accostare correttamente l’insegnamento buddista.
“Gakudo-Yojinshu”. (Raccolta di Avvisi per chi Studia la Via). Scritta
nel 1234 a Koshoji. Sono 10 capitoletti per chi inizia a studiare la
Via e a praticare la meditazione Zen.
“Shobo-Ghenzo-Zuimonki”. (Detti e Commenti circa lo Shobo-Ghenzo).
Sono appunti dell’insegnamento quotidiano di Dogen a Koshoji fra il
1235 e il 1238, editi dopo la sua morte dal discepolo e successore
Ejo. E’ ritenuta questa l’opera piu’ chiara per conoscere il suo
pensiero.
“Eihei-Shinghi”. (Regole per il monastero di Eiheiji). E’ una raccolta
di regole per il monastero e la spiegazione di esse. Comprende diversi
scritti, a partire dal 1237 fino al 1249.
“Eihei-Koroku”. (Ampia raccolta degli insegnamenti di Dogen). E’ una
estesa raccolta in 10 volumi del suo insegnamento, nei vari periodi di
Koshoji, Daibutsuji e Eiheiji, e contiene lezioni, detti occasionali e
versi: fu redatto dopo la sua morte dai discepoli Senne, Ejo e Ghien.

Per quanto riguarda invece le caratteristiche del pensiero Zen di
Dogen penso che basti ricordare i seguenti quattro punti:
1) Nonostante il Buddismo sia diviso in tante correnti, la corretta
trasmissione della Verità insegnata dal Buddha e’ unica (Shoden
Tanden no Buppo).
2) Pone al centro della pratica Zen la meditazione intesa come il
semplice stare seduti in una posizione e concentrazione corretta,
senza pensare a niente, senza preoccuparsi di niente e senza cercare
nulla, neppure il Satori (Shikantaza).
3) Considera i detti dei maestri Zen come una manifestazione della
Verità nella realtà quotidiana (Ghenjo-Koan), da cui prendere
esempio, più che dei paradossi a cui pensare durante la meditazione
per lasciarsi stimolare a superare il pensiero logico (Kufu-Koan),
come inteso nella scuola Rinzai.
4) La pratica religiosa e il satori sono una cosa sola (Shusho-Itto).
Dogen era convinto che l’insegnamento del Buddha che lui ha ricevuto
e insegna,è la Verità Suprema, trasmessa correttamente dal Buddha
attraverso i patriarchi e maestri precedenti e la chiama Shobo-Ghenzo-
Nehan-Myoshin: l’Occhio-Tesoro della Verità, il Cuore Misterioso del
Nirvana. E questa e’ unica, e’ il tutto, non e’ solo una parte
dell’insegnamento del Buddha o un filone del suo pensiero. Egli non
voleva mai usare la parola Shu (traducibile in setta, corrente,
scuola…), non ci sono sette o correnti diverse nella Verità.
Inoltre non si può imparare la Verità Suprema da soli, senza
maestro, bisogna imparare seguendo la guida di un maestro vero, a cui
e’ stata trasmessa la Verità correttamente.
In questo modo, ogni generazione di patriarchi e maestri sono venuti
trasmettendo la Verità direttamente, nell’incontro da volto a volto
fra maestro a discepolo. Nessun patriarca, nessun maestro, nessun
discepolo ha mai potuto diventare un Buddha o un patriarca senza
questa trasmissione diretta da volto a volto.
La retta trasmissione del Buddismo dice: “L’unica e corretta
tradizione della Verità e’ fra tutte la cosa suprema. Dal momento in
cui si comincia la pratica con un eccellente maestro, non e’
necessario offrire l’incenso, fare prostrazioni, recitare
l’invocazione del nome di Buddha, fare atti di pentimento, o studiare
i sutra. Una sola cosa e’ necessaria: stare seduti in meditazione
(Zazen) e cercare di lasciar cader via il corpo e la mente. Se uno
anche solo per un momento manifesta la Verità del Buddha nel corpo,
nelle parole e nel pensiero e si siede in profonda meditazione, tutto
il mondo e’ la Verità del Buddha e l’universo intero e’ la realtà
del Satori
Come anche da queste parole si capisce, il contenuto della retta
tradizione dell’insegnamento del Buddha e’ la meditazione Zen e
specialmente nella forma Shikantaza (Stare semplicemente seduti).
L’offrire incenso e fare prostrazioni durante le cerimonie, le lunghe
preghiere di invocazione, gli atti di pentimento oppure lo studio, non
sono il centro dell’insegnamento del Buddha: lo e’ il semplice stare
seduti in meditazione, uno Zazen che non pretende nulla, che non
pretende neppure il Satori, uno zazen che non si lascia sporcare da
nessun attaccamento alle cose o alle esperienze mistiche. Una
meditazione Zen intesa come Opera del Buddha (Butsugyo) e’ lo Zen di
Dogen. Non vede la meditazione come una pratica che mira ad arrivare
all’esperienza del Satori, ma vede la meditazione stessa come
l’espressione del mondo del Satori. Quando uno medita in profonda
concentrazione, l’universo intero appare come la figura del Buddha,
come il mondo del Satori.
In Dogen i detti e gli aneddoti degli antichi maestri Zen (Koan) da
Kufu-Koan si sviluppano in Ghenjo-Koan. Non sono solo dei mezzi, degli
ostacoli da superare uno per uno per arrivare al Grande Satori: il
pensiero del Ghenjo Koan indica che tutte le cose sono dei Koan
viventi; la realtà che appare davanti agli occhi così com’e’ (Ghen),
e’ la Verità Assoluta, perfetta e senza difetti (Jo). La posizione
Kanna Zen della scuola Rinzai fa studiare e concentrarsi sugli
insegnamenti dei maestri, uno per uno per far capire nella sua
pienezza la Verità. Il metodo di Dogen invece porta il discepolo a
capire la Verità attraverso tutte le cose e i fenomeni che compaiono
davanti agli occhi nella vita quotidiana. Per cui i Koan non si
limitano più ai detti dei maestri, anche le montagne sono Koan, i
fiumi sono Koan, i fiori, gli uccelli, il vento, la luna, tutto appare
davanti agli occhi ed esiste come Koan.
Oltre al metodo Shikantaza e alla posizione Ghenjo-Koan un’altra
caratteristica del pensiero di Dogen e’ l’unità fra Pratica e Satori
(Shusho-Itto). Non c’e’ una pratica (Shu) che gradualmente progredisce
e matura fino ad arrivare all’illuminazione, al Satori (Sho). Dogen
sottolinea che dall’inizio alla fine Pratica e Satori non si possono
separare: e’ una Pratica basata sul Satori innato in ogni persona; e’
un Satori che appare dalla pratica costante di ogni giorno. Oppure per
dirlo con altre parole, non pone come il Kanna-Zen il Satori, la
comprensione in pienezza della Verità come un obiettivo verso cui si
procede, ma la Verità appare continuamente davanti agli occhi e la
Comprensione e’ innata, per cui con il Satori alle spalle si procede
nella Pratica.
Che la Pratica e il Satori non siano una cosa unica e’ quanto pensano
le false dottrine. Nell’insegnamento Buddista Pratica e Satori sono
una cosa identica. Poiché la Pratica e’ fondata sul Satori, anche la
pratica della Via di un principiante e’ la totalità del vero Satori
Queste sono le caratteristiche principali del pensiero di Dogen,
però bisogna ricordare una cosa: nel Giappone del tempo
l’insegnamento Zen era principalmente quello della scuola Rinzai nella
corrente di Daiei, cioe’ il metodo Kanna-Zen, insegnato così come era
stato portato dalla Cina. Anche Dogen ricevette questo insegnamento
portato da Eisai, e anche in Cina all’inizio praticò nei monasteri
della corrente di Daiei. Però da quando incontrò il maestro Nyojo e
si mise alla sua guida imparò il pensiero Mokusho-Zen di Wanshi
Shogaku e una volta tornato in Giappone non si limitò a trasmettere
fedelmente questo metodo, ma lo andò sviluppando in una visione più
tipicamente giapponese, cioè con le caratteristiche citate sopra, e
si può dire che qui stia la sua grandezza.

Salvezza attraverso l’Esperienza
della Morte
Celestino CAVAGNA
____________________________________________________________________________
1) Prefazione
2) La Grande Morte nel Buddhismo
3) L’esempio di San Giovanni della Croce
4) Pratica della Meditazione Zen

1) Prefazione
Fra i cristiani ho scelto San Giovanni della Croce, perché nel suo modo di vivere e nel suo insegnamento lui accentuò l’importanza di morire a se stessi con Cristo, fino a scegliere la Croce per il proprio nome.

Nell’esperienza cristiana la salvezza è vista come Morte e Risurrezione. Noi dobbiamo morire a noi stessi con Cristo e rinascere con Lui alla Vita Nuova. Gesù vuole che noi moriamo con Lui:


o “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non e’ degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. (Mt 10:38, 16:25-26; Mc 8:35-36; Lc 9:24, 17:33; Gv 12:25)
“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” (Gv 12:24)
San Paolo che per grazia di un’esperienza mistica ha potuto essere uno con Cristo, anche lui enfatizza l’idea di morire con Cristo ed essere uno con lui nella risurrezione. E per lui questo voleva dire una vita corretta, libera da peccati e passioni.


o “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.” (Rm, 6:4-5)
“Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”. (Rm 6:8)
“Non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.”. (Rm 6:13). “Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato.” (Rm 6:7)
Questa idea di morire con Cristo qualche volta volle dire anche il vero sacrificio della propria vita. Nei primi tre secoli della storia della Chiesa i martiri erano felici di accettare la morte ed essere per sempre in Cielo con Cristo. In tempi di durezze e di persecuzioni la morte fisica era a volte inevitabile, e sacrificare la propria vita per Cristo era visto come salvezza certa.
Dopo che le persecuzioni furono finite, il monachesimo cominciò come un modo di rinunciare alla propria vita e vivere in povertà e preghiera per essere una cosa sola con la morte e la risurrezione di Cristo.
Molti santi da allora hanno vissuto e insegnato agli altri questa esperienza spirituale della Morte.

2) La Grande Morte nel Buddismo

Pensando la salvezza, il Buddismo dà grande importanza alla via negativa, all’accettazione della sofferenza e della morte, allo sperimentare la morte in modo spirituale. C’è in qualche modo una visione comune di vita, dove pensare alla morte con tutto il cuore e l’anima è il modo per condurre una vita positiva ed entusiasta.
Gautama Buddha fece della sofferenza, della morte e della liberazione da esse il centro del suo insegnamento.
Possiamo vedere delle espressioni dalle “Suttanipata” (Parole di Illuminazione), una delle più vecchie scritture buddiste Pali che si dice contengano alcune delle parole del Buddha stesso:


o “Quelli che sono nati non hanno modo per evitare la morte; tu arrivi alla vecchiaia e poi muori. Realmente questo è il destino di quelli che sono nati.” (575)
“Come gli oggetti di terracotta fatti dall’artigiano alla fine si distruggono, così è per la vita umana.” (577)
“Sono presi dalla morte e vanno all’altro mondo, e neanche il padre può salvare il figlio, né i parenti possono salvare i loro parenti.” (579)
“Così le persone di questo mondo si perdono per la vecchiaia e la morte; gli uomini saggi capiscono così la realtà di questo mondo e non si rattristano.” (581)
“Uno che è impigliato nelle illusioni e ha perso se stesso, se nel piangere e rattristarsi trova qualche utilità, gli uomini saggi facciano pure lo stesso.” (583)
“Ma nel pianto e nella tristezza non può avere la pace del cuore; l’unico risultato è nuova sofferenza e il suo corpo diviene macilento ed esausto.” (584)
Dai tempi antichi la meditazione sulla morte (Nenshi) fu usata come un addestramento per essere liberi dalla paura della morte e dalla concupiscenza, che causa attaccamento alle cose ed impedisce la comprensione della verità. Pensare che la morte è qualcosa di inevitabile, abituarsi all’idea che uno deve morire, immaginare la propria morte o persone morte di fronte ai propri occhi.
Nel 21mo capitolo del “Dai-chidoron” di Nagarjuna (Mahaprajnaparamita-padesa) sono descritti più in dettaglio i nove tipi di meditazione sui cadaveri come un modo liberarsi dall’attaccamento al corpo umano. C’è prima la percezione di un cadavere gonfio; un cadavere che cambia colore; un cadavere che si deteriora; sangue sul terreno fuoruscito da un cadavere; un cadavere coperto di pus; un cadavere lacerato da uccelli selvatici e animali; i lembi sparsi di un cadavere; percezione di ossa essiccate e bianche e infine percezione di ossa ridotte in ceneri.
“Nenshi” (meditazione sulla morte) fu usata moltissimo come metodo di addestramento nella setta Zen in Cina e Giappone. In Giappone specialmente, i guerrieri che spesso erano in situazione di affrontare la morte, connetterono in un certo modo l’addestramento Zen con la libertà dalla paura della morte.

Ma c’è nel Buddismo anche una via positiva, una ricerca della salvezza che sta nel migliorare se stessi, praticando con tutta la forza l’ascesi religiosa severa in diversi stadi, verso lo stato di perfezione. Il Buddismo classico Tendai insegna che ci sono 52 tappe verso la perfetta Buddhità, come viene spiegato nello Yo-raku-kyo, un sutra Mahayana. Uno che fa voto di realizzare la perfezione è chiamato Bodhisattva, e la sua ascesi va da 10 stadi di fede (jusshin) a 10 stadi di sicurezza (ju-ju), 10 stadi di pratica (ju-gyo), dieci stadi di devozione (ju-eko), 10 stadi di sviluppo (ju-ji); poi uno stadio di quasi Buddhità (to-gaku), e finalmente la Buddhità perfetta (myo-gaku).
Uno deve cominciare con una fede forte nella perfezione e una volontà forte per realizzarla. Poi deve tenere fissa la sua mente nella sicurezza della verità e riposare in essa con la meditazione. Questa concentrazione pacata sul vuoto della realtà conduce a stadi più alti di comprensione. Evitare i concetti sbagliati, l’ignoranza, l’attaccamento alle idee; sopportare tutte le difficoltà senza scontrarsi contro gli altri, aiutare tutti gli esseri viventi e fare il massimo sforzo per condurli alla salvezza: questi sono i primi stadi della pratica ascetica. I seguenti dieci stadi della devozione significano qui che il Bodhisattva non tiene per sé tutti i meriti che accumula con la meditazione e l’ascesi, ma per amore verso tutti gli esseri viventi, dà via questi meriti in molti modi a quelli che ne hanno bisogno. In questo modo raggiunge uno stato di felicità, purezza, compassione e luminosità. Diventa immutabile, vince le difficoltà, è presente dovunque e ha profonda saggezza. Lo stadio di quasi Buddhità (to-gaku) è uno delle 52 tappe per ottenere e portare a perfezione la Buddhità. Pensando questo processo nella dimensione del tempo, esso può durare un numero inimmaginabile di kalpa, (periodi estremamente lunghi, detti anche eoni). In questo processo come insegna il Buddismo Mahayana, i Bodhisattva rinunciano volontariamente a completare la propria perfezione per aiutare gli altri esseri viventi e condurli tutti alla salvezza.
L’ultima tappa “Myo-gaku”, è la Buddhità perfetta, dove il Bodhisattva ha sradicato completamente tutti gli inganni, ha acquisito la saggezza più perfetta e sperimentato l’illuminazione suprema senza limite.

Nel Buddismo Zen i maestri spesso parlano della “Grande Morte” (Dai-shi). Questo va oltre la pratica per raggiungere la perfezione. Si tratta di gettarsi in uno stato di morte spirituale, e si ha in cambio la più completa libertà di azione. “La Grande Morte innanzi tutto, e la Grande Vita apparirà.” “Grande Morte, Grande Vita: alla fine vi è risurrezione.”
Gettare via tutto il pensiero discriminante che noi di solito abbiamo, vuotare completamente la propria mente e dedicarsi alla pratica religiosa. Da qui comincerà la vera vita nuova .
Come il maestro Dogen disse nella sua opera maggiore, lo Shobo-Genzo:


o “Con questa forza egli dà vita ai quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria, e costringe la mente, la coscienza e la saggezza a morire la loro morte assoluta” (Dogen, Shobo-Genzo, Gabyo no maki)
Costringere la mente, la coscienza e la saggezza a morire la loro morte assoluta è il rifiuto completo di sé, è praticare la meditazione, lavorare, mangiare il riso, bere il tè, dormire con naturalezza completa, senza disturbare la vita col pensiero e il giudizio discriminante, senza pensieri Ego-centrati. Questa vita semplice e naturale che noi possiamo vedere nelle note dei maestri Zen è la pienezza di vita in tutto ciò che uno fa, è dare vita ai quattro elementi.

Prendendo un esempio dal Mumonkan (La barriera senza ingresso), una raccolta di aneddoti dei maestri Zen cinesi compilata da Mumon Ekai nel 1229, questa Grande Morte è come spiccare un salto in avanti dalla cima di un palo.


o Il maestro Sekiso disse, “Come fai tu a spiccare un salto in avanti dalla cima di un palo di trenta metri”? Un altro eminente maestro antico disse, “anche se uno che sta seduto sulla cima di un palo di trenta metri ha ottenuto l’illuminazione, questo non è ancora vero. Dalla cima del palo deve fare un salto in avanti e deve manifestare il suo corpo intero a tutto il mondo nelle dieci direzioni.” (Mumonkan, caso 46)
Sedere sulla cima di un palo di trenta metri è lo stadio di perfezione acquisito da una lunga pratica e da un addestramento religioso severo, è il livello più alto a cui uno può arrivare. Ma qui noi possiamo vedere la caratteristica dello Zen. Questa cima del palo è ascesi per se stessa, è la salvezza che uno pensa di avere, ma non è reale.
Uno deve abbandonare la sicurezza a cui è arrivato col suo lungo addestramento, deve sfidare l’ignoto, deve saltare con coraggio nell’incertezza. Uno deve morire, il suo Ego deve rompersi a pezzi e polverizzarsi cosparso per tutto l’universo, dove innumerevoli esseri viventi stanno aspettando il suo aiuto per essere liberati dalle illusioni.

Colui che ha avuto questa esperienza è chiamato “Daishitei-no-hito”, l’Uomo della Grande Morte; colui che attraverso la pratica di eliminare il pensiero discriminante è completamente morto a se stesso, colui che dalla Grande Morte ha ottenuto una vita nuova; colui che è libero da visioni, voci udite, comprensioni e conoscenza; colui che è libero da ogni coscienza discriminante, un uomo completamente illuminato.

C’è un caso interessante nello Hekiganroku (La raccolta di detti della Roccia Azzurra), un altra raccolta compilata nel 1300 dai maestri Setcho Juken e Engo Kokugon. È chiamato “Jo-shu e la Grande Morte”, e ci aiuta a capire in che cosa consiste l’esperienza dello Zen.


o Soggetto principale: Jo-shu chiese To-su, “Cosa ne pensi se un uomo della Grande Morte torna di nuovo in vita?” To-su rispose, “Tu non dovresti andare in giro di notte; torna da me alla luce del giorno.”
Verso di Setcho: “Sempre a occhi aperti in vita, però lui era come se fosse morto; A cosa serve provare il maestro con qualche cosa di tabù?”
Anche il Buddha disse che lui stesso non era ancora arrivato là;
Chi sa quando è il momento di gettare ceneri negli occhi dell’altro ? (Hekiganroku, caso 41)
Questo dialogo tra due grandi maestri Zen cinesi, Jo-shu Ju-shin (778-897; discepolo di Nansen), e To-su Daido (819-914 discepolo di Suibi Mugaku), a una prima lettura può essere difficile da capire, ma mostra la Realtà dal punto di vista profondo dei due maestri.
Questo spesso è chiamato “la battaglia del Dharma”. Si chiede e si risponde sempre circa l’essenza della realtà, ci si esamina l’un l’altro sulla comprensione della Verità. Qualche volta era tra il maestro e i suoi discepoli, qualche volta tra maestri stessi, e spesso fu fatta di fronte a molte persone. Non interessa se uno è vecchio o giovane, esperto o no, avere una vasta cultura o no, è soltanto questione di manifestare la chiarezza del proprio occhio, la profondità della propria illuminazione. Era anche normale, dopo che uno era stato addestrato da un buono maestro, andare in giro visitando altri maestri per controllare il proprio grado di illuminazione, prima di cominciare a guidare altri.
Si dice di Jo-shu che entrò nella vita monastica da bambino e praticò sempre con impegno, ma fu illuminato solamente dopo circa 60 anni di pratica, sotto il maestro Nansen. Dopo che Nansen morì lui andò in giro per visitare alcuni maestri e incontrò in questo periodo To-su Daido. Si stabilì poi sul Monte Jo-shu quando aveva circa 80 anni e istruì molti discepoli nella Via per circa 40 anni. Si dice che sia morto a 120 anni. To-su Daido era un maestro molto giovane; quando Jo-shu venne da lui, aveva soltanto 30 anni, ma già era responsabile del Monte To-su, e nel confronto con Jo-shu mostra la sua grandezza.
Nel dialogo, Jo-shu parla di un uomo che ha sperimentato la Grande Morte, uno che ha provato l’inesistenza assoluta, che con la meditazione ha fermato il pensare ingannevole della coscienza ordinaria, il cui occhio è illuminato e la cui mente è purificata. Come cambia la sua vita dopo questa esperienza? Egli ritorna in vita, alla vita ordinaria di ogni giorno, al suo lavoro e al suo pensiero normale, all’incontro con altre persone. Come viene influenzato dall’esperienza dell’illuminazione?
To-su risponde bruscamente, non andare in giro di notte come un ladro che vuol rubare qualche cosa, non c’è nulla da prendere dalla cosiddetta “esperienza di satori.” Non voglio parlare circa questa buia esperienza mistica, dimenticalo. Vieni da me durante il giorno, guarda alla vita quotidiana, questo è il vero mondo; questa è la Vera Vita.
Certamente la morte spirituale è assolutamente necessaria per capire la Realtà, ma uno deve dimenticare questa esperienza. Se c’è anche solo un piccolo attaccamento ad essa, non è reale, è di nuovo l’Ego che prova piacere nel suo conseguimento spirituale.
Setcho, commentando questo dialogo aggiunge: Jo-shu era illuminato ed era come morto a se stesso; che bisogno c’era di esaminare il maestro To-su con una domanda che sapeva non avrebbe dovuto chiedere? La Grande Morte è un morire interminabile; Nemmeno gli antichi Buddha e i grandi maestri possono mettere un limite ad essa. Non c’è una cosa come “sono arrivato a perfezione.” Ma questo gettarsi cenere negli occhi l’un l’altro provoca a morire di più, a morire interminabilmente. Questa è la spada del maestro che uccide e che dà la vita.

Il maestro Dogen (1200-1253), il grande maestro giapponese del periodo di Kamakura che portò dalla Cina il metodo di meditazione Zen nella forma della scuola So-to, chiama quest’esperienza: “Shinjin-datsuraku”, Corpo e mente caduti via. Corpo e mente, cuore e anima completamente dimenticati e liberi da ogni restrizione e attaccamento.
Quando era giovane non era soddisfatto del Buddismo classico che studiò al Monte Hiei a Kyoto. Egli aveva trovato una discrepanza tra l’ideale della pratica ascetica e il migliorare se stesso verso la Buddhità perfetta, e il pensiero “Hongaku” portato in Giappone da Saicho, secondo cui ogni essere vivente ha in se stesso la natura del Buddha, e il “satori” è innato in ogni persona.
È detto nelle “Note dei Tre Grandi Venerabili”, una raccolta di scritti della scuola So-to che narra la storia di Dogen, Ejo e Ghikai, i primi tre abati del monastero d’Eiheiji:


o Studiando l’essenza dei maestri e il vasto insegnamento del Buddismo, ho potuto imparare che la propria natura è la stessa cosa della verità originale e assoluta. In questo anche il Buddismo classico e la scuola esoterica sono d’accordo. Ma qui sorge un grande dubbio: perché mai i Buddha e i maestri di tutti i tempi hanno bisogno di diventare monaci e dedicarsi ad una pratica religiosa severa?
Se l’uomo è un Buddha dalla sua nascita, perché non può vivere secondo la mente di Buddha, perché non vede la luce della verità, perché è impigliato in molti inganni e si rende cieco e soffre?
Per capire meglio la natura dell’uomo, la verità e il modo di ottenere la liberazione dagli inganni Dogen andò in Cina alla ricerca di un buon maestro, e dopo aver visitato molti luoghi finalmente incontrò il maestro Nyojo, il maestro giusto.
Da lui imparò il “corpo e mente caduti via.”
Una volta stava meditando nella sala e il monaco vicino a lui, che era stanco, si era addormentato. Da dietro il maestro Nyojo gridò: “Questo è il tempo per dedicarti completamente alla meditazione, come se il corpo e la mente fossero caduti via, e perché tu dormi”?. Dogen si ricorda di avere avuto in quel momento una profonda comprensione e quando più tardi andò a incontrare il maestro, dopo aver bruciato l’incenso di fronte a lui come saluto, il maestro gli disse: “Che cos’è questo bruciare l’incenso?”. Dogen rispose: “Eccomi qui, il corpo e la mente sono caduti via.” Il maestro di nuovo: “Veramente corpo e mente sono caduti via. “Cader via”, questo è il corpo e la mente”, e approvò l’illuminazione di Dogen. Il corpo e la mente di Dogen ora erano liberi da qualsiasi attaccamento, egli aveva compreso che non c’era nulla da trovare o da ottenere. Lo stesso sedere in meditazione era una manifestazione dell’illuminazione; la posa corretta, la mente quieta e libera da pensieri e preoccupazioni sono esse stesse lo splendore della natura di Buddha che uno ha in sé dalla sua nascita.
Questo è un insegnamento tipico di Dogen: la pratica religiosa e l’illuminazione sono una cosa sola. Uno non pratica meditazione per arrivare a qualche cosa, a qualche livello più alto di coscienza, ma la pratica come spinto da dentro dalla sua Natura Essenziale, questo è “satori”, questo è capire la realtà.
Dall’altra parte la meditazione e la pratica nella vita d’ogni giorno ampliano e approfondiscono la propria comprensione della realtà.
Il centro dell’insegnamento di Dogen è: solamente sedere in meditazione (Shikantaza). Non pensare a nessuna cosa, non volere assolutamente nulla, nemmeno l’illuminazione, non guastare la bellezza della realtà con attaccamento ad esperienze mistiche. La meditazione si compie da sola, la Grande Vita si sta mostrando, il Buddha Eterno sta meditando. E lo stesso è per la vita d’ogni giorno. Camminare, sedere, dormire, mangiare, bere, lavorare, leggere, pregare, parlare con altre persone, aiutare gli altri, tutto questo non è opera propria, questo è la Realtà al lavoro, non c’è posto per nessun Ego. Tutto ciò che accade in noi o intorno a noi è soltanto “Il gioco della Grande Inesistenza.”

3) L’Esempio Di San Giovanni della Croce

San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo del XVI secolo, aveva come caratteristica della sua vita e del suo insegnamento un rifiuto completo di se stesso, l’accettazione della povertà, sofferenza e umiliazione come un’imitazione della croce di Cristo. Lui guidò molte persone religiose, insegnando loro a morire al vecchio uomo così che uno può essere fatto rinascere da Dio in modo soprannaturale.
Una delle sue parole favorite era “nada”, nulla e in qualche modo ha delle somiglianze col Buddismo Zen. Nel disegno del Monte Carmelo, quando lui scrive nel centro:
“Il percorso del Monte Carmelo, lo spirito perfetto: nulla nulla nulla nulla nulla nulla, e anche sul Monte nulla”, le sue parole assomigliano a quelle di un maestro Zen.
Lui diede ai molti frati, monache e laici che chiesero la sua guida spirituale, consigli concreti sul come morire a sé stesso, ai peccati, alle passioni ed enfatizzò l’importanza di un completo rifiuto di se stesso per arrivare all’unione con Dio, la felicità suprema dell’anima. Questo rifiuto completo è “La Morte” come un addestramento che dura tutta la vita, per ottenere la liberazione dall’Ego. L’Unione con Dio, sebbene può essere un’esperienza mistica e provvisoria, è la coscienza profonda che trasforma la vita di uno, che gli fa accettare tutto con gioia, anche le sofferenze più amare e rende uno capace d’amare e volere bene a tutte le persone.

Nei suoi scritti, specialmente “L’Ascesa del Monte Carmelo” e “La Notte Scura” paragona il viaggio spirituale verso l’unione con Dio ad una notte scura che l’anima deve passare.
La prima parte di questa notte è la purificazione dai desideri che sono un peso per l’anima nel viaggio spirituale. La seconda parte è una purificazione della tre facoltà dell’anima: intelletto, memoria e volontà. L’Intelletto è purificato così che l’anima possa essere perfetta nella virtù della fede; la memoria è purificata così che l’anima possa essere perfetta nella virtù della speranza, e la volontà è purificata così che possa essere perfetta nella virtù della carità.
Nel primo libro della “Ascesa” circa la necessità di mortificare i desideri egli parla del danno che essi fanno all’anima, come essi tormentano l’uomo, lo oscurano, lo accecano e lo corrompono, indeboliscono l’anima e la rendono tiepida nella pratica della virtù. Così bisogna liberarsi da tutti i desideri, anche i più piccoli per raggiungere l’unione con Dio.
Nel tredicesimo capitolo del primo libro da’ alcuni consigli pratici sul come entrare “nella notte dei sensi”, e purificare i desideri.


o Le massime seguenti contengono un rimedio completo per mortificare e pacificare le passioni. Se messe in pratica, queste massime daranno meriti abbondanti e grandi virtù.
Sforzati di essere sempre inclinato:
non al più facile, ma al più difficile;
non al più delizioso, ma al più aspro;
non al più gratificante, ma al meno piacevole;
non a ciò che vuol dire riposo per te, ma al lavoro duro;
non a ciò che consola, ma a quanto non consola;
non al massimo, ma al minimo;
non al più alto e prezioso, ma all’infimo e al più disprezzato;
non a volere qualche cosa, ma a volere nulla;
non andare in giro cercando il meglio delle cose temporali, ma il peggio;
e desidera di entrare per Cristo nella nudità completa, nel vuoto, e nella povertà in ogni cosa del mondo.
Tu dovresti abbracciare sinceramente queste pratiche e tentare di superare la ripugnanza della tua volontà verso di esse. Se le mettessi sinceramente in pratica con ordine e discrezione, scopriresti in loro grande delizia e consolazione.
(L’Ascesa del Monte Carmelo, 1, 13 5-7)
Questo modo di pensare di San Giovanni della Croce fu influenzato grandemente dalla propria vita. Egli fu molto povero nella sua infanzia ed ebbe una vita di privazioni. Come frate divenne famoso per la sua intimità con Dio, la su profonda intuizione e l’abilità di guidare persone; ma patì la gelosia da parte di altri frati. Quando insieme con Madre Teresa di Gesù cominciò la riforma dell’ordine Carmelitano, incontrò molte incomprensioni, e dovette soffrire persecuzioni e perfino l’imprigionamento. Tutti queste fatiche normalmente indurirebbero il cuore e farebbero sì che uno si rivolti contro il mondo, ma Giovanni accettò tutto come una prova da Dio, come un modo per purificare e raffinare la propria anima. Attraverso l’esperienza della sofferenza e il rifiuto di sé, egli poté sperimentare una profonda intimità col mistero di Cristo, poté provare grandi consolazioni spirituali, e fu ripieno di comprensione e compassione per i sofferenti.
Suo padre veniva da una famiglia ricca di commercianti di seta di Toledo, ma fu escluso e privato delle proprietà della famiglia perché sposò, nonostante l’opposizione dei membri della famiglia, una donna di ceto basso. Così scelse una vita di povertà e lavorò sodo con sua moglie. Giovanni nacque nel 1542, ma subito dopo il padre morì e la famiglia fu ridotta in estrema povertà. La madre Catalina si vide rifiutare ogni aiuto che chiese alla famiglia del marito, e dovette lavorare sodo per allevare i tre bambini. A Giovanni fu fatto frequentare la Scuola del Catechismo, un’istituzione che come un orfanotrofio si prendeva cura dei bambini dei poveri, dando loro cibo, vestiti e istruzione elementare. Giovanni cominciò anche lavorare molto giovane, e imparò molti mestieri attraverso l’apprendistato da artigiani locali. Quando aveva 17 anni stava lavorando in un ospedale, e gli fu permesso di frequentare il collegio dei Gesuiti a Medina del Campo, dove poté studiare grammatica, retorica, greco, latino e religione, purché continuasse il suo lavoro all’ospedale. In seguito sentì un forte desiderio per la vita religiosa e a 20 anni entrò nell’ordine Carmelitano, e fu ordinato prete a 24 anni.
Poco dopo incontrò Madre Teresa di Gesù che gli chiese di aiutarla nella riforma dell’ordine Carmelitano che voleva intraprendere. Lo scopo era portare al convento una maggiore vita contemplativa, più preghiera mentale, più povertà nel modo di abitare, di vestire, di mangiare e una maggiore separazione dal mondo. Ai frati fu anche richiesto di andare a piedi nudi e per questo essi furono chiamati “Carmelitani Scalzi”. La riforma piacque a molte persone giovani, e il gruppo aumentò rapidamente in numero. Ma molti nell’ordine si sentirono minacciati da questa riforma, e tentarono ogni sforzo per fermarli. Con l’aiuto del Nunzio Del Papa l’ordine tentò di sopprimere la riforma, e Giovanni stesso fu arrestato e tenuto prigioniero per più di mezzo anno in un convento di Toledo. Quasi ogni giorno gli fu chiesto di rinunciare alla riforma, ma egli non acconsentì, e la sua ribellione fu punita con molestie e frustate, così dure che ci vollero anni per guarire le ferite.
La riforma fu riconosciuta più tardi attraverso l’intervento del re Filippo II nel 1580 e Giovanni ebbe alcuni anni di calma e di pace e poté passare il suo tempo in contemplazione e nel suo lavoro preferito: ascoltare le confessioni e dare guida spirituale a monaci, monache, e persone laiche.
Ma verso il 1590, ebbe di nuovo guai, e stavolta all’interno della riforma stessa. Fra’ Giovanni contrastò l’opinione del Vicario generale dei Carmelitani scalzi su delle questioni durante il capitolo, e l’anno seguente non venne rieletto a nessun incarico nell’ordine riformato.
Questo incidente poteva ferire chiunque, specialmente chi spese così tanta energia per il bene dell’ordine e soffrì tanto per esso, ma Fra’ Giovanni accettò questa situazione come un dono di Dio. Dio gli stava dando il riposo di cui aveva bisogno; lasciato da parte e alleviato dalle responsabilità e dal lavoro, aveva più tempo per vivere in contemplazione profonda.
L’anno dopo si ammalò e morì a Dicembre dopo aver trascorso del tempo in un convento a Ubeda, pressoché dimenticato da tutti e soffrendo la molestia di un confratello ostile che provava antipatia per Giovanni per la sua reputazione di santità. Scelse lui stesso quel luogo perché nessuno sapesse dov’era.
Le seguenti parole dal secondo libro dell’ “Ascesa del Monte Carmelo” rivelano come egli fermamente credette nella necessità di negare se stesso e prendere la croce sui passi di Gesù.


o Oh, chi può spiegare l’estensione del rifiuto di se stessi che il nostro Signore desidera da noi! Questa negazione di sé deve essere simile a una completa morte temporale, naturale e spirituale, ovvero, per riferimento alla stima della volontà che è la fonte ogni rifiuto.
Il nostro Salvatore si riferì a questo quando dichiarò: Colui che desidera salvare la propria vita la perderà (se qualcuno vuole possedere qualche cosa, o lo cerca per se stesso, lo perderà); Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. [Mt.16:25; Lk.9:24]. La seconda affermazione significa: Colui che rinuncia per Cristo a tutto quanto la sua volontà può desiderare e può godere, scegliendo quello che ha più somiglianza alla croce – che il nostro Signore nel vangelo di San Giovanni chiama “odiare la propria vita [Gv. 22:25] – costui la guadagnerà.
Sua Maestà nostro Signore insegnò questo ai due discepoli che vennero a chiedergli di stare alla Sua destra e sinistra. Senza rispondere alla loro richiesta di gloria, Egli offrì loro il calice che lui stesso stava per bere, come qualcosa di più sicuro e più prezioso su questa terra che non il godimento. [Mt. 20:22]
Questo calice simboleggia la morte a se stesso attraverso lo spogliamento e l’annientamento. Come risultato di questa morte uno può camminare lungo la strada stretta nella parte sensibile della sua anima, come noi dicemmo, e nella parte spirituale (nella sua comprensione, gioia e sentimenti)
(L’Ascesa del Monte Carmelo, II, 7 6.7)
Uno può chiedere che salvezza c’è nella povertà, nelle privazioni, nelle incomprensioni, persecuzioni e sofferenze. Alcuni possono pensare alla salvezza solo come una ricompensa nel mondo futuro, dopo un’intera vita di sofferenza e perseveranza.
Ma noi possiamo vedere in San Giovanni che il rifiuto di sé, insieme con la preghiera continua e la pratica della carità trasformò la sua vita intera nella vita più felice che uno potesse desiderare, e fu capace di dare amore, pace e felicità a ognuno.

Mi sembra di riconoscere innanzitutto la Vita Nuova di San Giovanni nel carattere gioioso che sempre aveva. Egli aveva un dono speciale per l’umorismo e nonostante come superiore fosse naturalmente serio, amava far ridere le persone. I frati erano felici di averlo insieme a ricreazione. Lui notava immediatamente persone tristi e depresse e cercava di alleviare la loro tristezza con parole gentili. Come superiore usava sempre gentilezza e carità nel correggere le persone e mai usò metodi aspri. Era paziente con tutti; nel sacramento della penitenza per esempio, i peccatori induriti, gli scrupolosi o altri che di solito i confessori non gradiscono, cercavano lui, e lui non limitò i suoi sforzi per capirli e dare loro pace.
Nel convento spesso chiedeva l’opinione degli altri frati circa molti problemi che accadevano. Tutto questo creava intorno a lui un ambiente di serenità e di gioia.
Egli era sempre ripieno di fiducia e libero da ogni preoccupazione e ansia. In tempi in cui il convento era molto povero, lui incoraggiò ognuno ad essere fiduciosi nell’aiuto di Dio, e ogni volta l’aiuto arrivò in modi misteriosi. Quando perseguitato da altri religiosi dell’ordine, lui vide in quello la mano di Dio, ed esortò altri a non essere turbati per i persecutori, ma a ringraziare Dio per le prove che raffinano la propria anima. In tale modo il suo atteggiamento aiutò a tenere sempre un’atmosfera di calma e di pace nel convento .

Un altro aspetto della sua Vita Nuova fu come lui sempre si sentì in unità di spirito con tutte le persone, sentendo le loro necessità, le loro sofferenze e sempre li aiutava, ripieno di amore bruciante. La sua cura più speciale era per i poveri. Lui stesso ebbe un’infanzia molto povera, e in quei tempi di sfortuna e di bisogno materiale, spesso andò oltre la direzione spirituale e diede soldi a diverse persone dai piccoli fondi del convento, o qualche volta andò fuori a mendicare per aiutare dei poveri che non potevano mendicare da soli.
Inoltre ebbe una preoccupazione speciale per gli ammalati. Il suo lavoro nell’ospedale di Medina quand’era giovane, gli lasciò una profonda compassione per gli ammalati. Spendeva lungo tempo vicino al letto dei suoi frati, parlando e incoraggiandoli; o andava in cucina a preparare dei pasti speciali per gli ammalati. Quando c’era bisogno di qualche medicina costosa , andava in giro lui stesso a chiedere elemosine per comprarle.
Spesso anche condivideva il lavoro manuale che opprimeva i frati o le monache dove lui andava per le confessioni. Costruire muri, fare riparazioni, o anche intraprendere compiti umili come scopare o fregare i pavimenti o pulire il giardino.
Amava moltissimo la natura, e qualche volta conduceva i suoi frati in montagna per ricreazione, o passava lungo tempo pregando vicino al fiume o meditando nella quiete di una caverna.
Meditava la Bibbia (il suo libro preferito) e la liturgia della Chiesa con tale intensità che il suo aspetto cambiava. Una volta durante la Settimana Santa soffrì così intensamente per la Passione di Cristo che non poteva lasciare il convento per ascoltare le confessioni delle monache. Una volta a Natale prese la statua di Gesù Bambino nelle sue braccia e andò in giro per il convento cantando e ballando con gioia.
Tutti questa gioia e il grande amore che sentiva verso tutte le persone, derivava dalla sua unità e intimità con Dio. Durante la preghiera a volte arrivava a estasi profonde e dimenticava tutto. C’è un racconto famoso come una volta alla festa della Santa Trinità mentre parlava con Madre Teresa di Gesù circa il mistero della Trinità, entrambi caddero improvvisamente in estasi profonda e furono elevati in alto dalla forza dello Spirito. Madre Teresa disse in seguito: “Uno non può parlare di Dio a Padre Giovanni della Croce perché lui subito va in estasi e causa lo stesso agli altri.”
Fra’ Giovanni stesso, parlando a proposito della Vita Nuova disse:


o Spiritualmente parlando, ci sono due generi di vita:
Una è beatifica, e consiste nella visione di Dio che si ottiene dopo la morte naturale, come San Paolo dice: Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. [2 Cor. 5:1]
L’altra è la perfetta vita spirituale, il possesso di Dio attraverso l’unione di amore. Questa è acquisita attraverso la mortificazione completa di tutti i vizi e i desideri e della propria natura. Fino a che questo non è realizzato, uno non può arrivare alla perfezione della vita spirituale di Unione con Dio; come l’Apostolo stesso dichiara in queste parole: “Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.” [Rom. 8:13] (la Viva Fiamma dell’Amore, Stanza 2 n.32)
In questo modo, più che in ogni altro, la comprensione di salvezza come morire a se stessi con Cristo e vivere la Vera Vita della Risurrezione, è particolarmente chiaro nella vita e insegnamento di San Giovanni della Croce.

4) Pratica della Meditazione Zen
Infine vorrei dire qualche cosa circa la mia esperienza personale di meditazione Zen con Padre Enomiya Lassalle e il Maestro Yamada Ko-un. Essi mi hanno insegnato che l’esperienza della morte consiste nell’essere semplici, nel dimenticare sé stessi; vivere in modo giusto e vero e praticare continuamente la meditazione. Meditare con impegno, non per ottenere qualche cosa, ma per dimenticare sé stessi e capire in profondità la nullità di sé e del tutto. Questa è libertà e verità. Inoltre, controllare se quello che è compreso è vissuto nella vita di ogni giorno (personalizzazione dell’esperienza). Vedere nei sentimenti, nei pensieri, nel modo di incontrare le persone, nel modo di affrontare i problemi, se uno si è veramente svuotato ed è libero. La prova della vera comprensione (satori), è la capacità di essere una cosa sola con tutte le persone, è di essere a proprio agio in ogni situazione. Se non c’è questo, non ci può essere la “Vita Nuova”, non ci può essere salvezza, è solamente una spiritualità fatta di parole e di idee.

Il mio primo sesshin (ritiro Zen di diversi giorni) con Padre Lassalle a Shinmeikutsu (la casa di ritiro Zen cattolica, sui monti alla periferia di Tokyo) fu alla fine di marzo del 1979. Ero già abituato da prima a sedere in meditazione Zen da solo, ma quella era la prima volta che partecipavo a un sesshin completo di cinque giorni, e non immaginavo come sarebbe stato. L’amico con cui andai aveva partecipato già molte volte a dei sesshin, e mi disse non era così duro. Avrei sentito male alle gambe all’inizio, ma poi mi sarei abituato.
Con molta fiducia entrai nella casa di ritiro e mi sentii subito a mio agio col silenzio e l’austerità di Shinmeikutsu, e pensai che per me sarebbe stato un buon sesshin .
Mi sedetti un po’ nello Zendo (sala di meditazione) da solo per gustarne l’atmosfera, e poi avemmo un incontro di introduzione e di spiegazione dettagliata dei giorni del sesshin.
L’orario era piuttosto severo, con davvero molto tempo di meditazione. Non avevo problemi col silenzio e pensai che sarebbe stata una bella esperienza lo stare una settimana intera senza parlare. Mi piaceva anche il cibo giapponese vegetariano e non mi preoccupai più di niente.

Il seguente è l’orario quotidiano del sesshin a Shinmeikutsu. E’ anche lo stesso orario dei sesshin nei monasteri Zen dai tempi antichi:


o 4:00 Levata
4:20 Zazen (sedere in meditazione zen)
5:00 Messa, Zazen
6:00 Colazione
6:30 Samu (lavoro manuale), interruzione
7:30 Zazen (40 minuti), Kinhin (camminare in meditazione)
8:30 Conferenza sullo Zen
9:30 Zazen, Dokusan (incontro privato col Maestro), Kinhin.
10:30 Zazen
11:00 Pranzo, momento di riposo
1:30 Tè, Zazen, Kinhin
2:30 Zazen, Dokusan, Kinhin
3:30 Zazen, Kinhin, preghiera della sera
4:30 Cena
6:30 Zazen, Kinhin
7:30 Zazen, Dokusan, Kinhin
8:30 Zazen
9:00 Ultime istruzioni del maestro, Tè
9:30 Riposo
Il primo giorno ci alzammo alle 4:00. In 15 minuti ero pronto ed entrai nella sala di meditazione, sedetti in posizione aspettando la campana che dà il segnale d’inizio dello zazen. Nel silenzio profondo nessuno si muoveva , sembrava perfino che nessuno respirasse. Il suono vibrante dei tre colpi di gong entrò nei miei orecchi e nel mio cuore profondamente, conducendomi a un più profondo silenzio interiore. Continuai a seguire mentalmente il respiro e capii che per me stava iniziando una vita nuova. Finalmente potevo avere un vero addestramento Zen con un buon maestro, una cosa che desideravo da molto tempo.
Dopo lo zazen ci fu kinhin, la meditazione camminando, poi la Messa. La colazione fu molto semplice, riso in brodo con un po’ di tsukemono, le salamoie giapponesi. Seguì il samu: lavoro nella casa, pulire la sala di meditazione, i corridoi, i gabinetti; oppure fuori, pulendo intorno alla casa, e il giardino.
Una piccola interruzione e di nuovo zazen. 40 minuti erano un po’ lunghi e le mie gambe cominciavano a far male più che mi aspettassi ma tentai di concentrarmi meglio che potevo. Padre Lassalle ci tenne una conferenza circa il corretto modo di sedere della meditazione Zen, poi di nuovo zazen, kinhin, zazen fino alle 11:00 quando ci fu il pranzo e poi potemmo riposare per un paio d’ore. Si dovrebbe essere concentrati continuamente, anche durante il riposo, ma ruppi il silenzio per parlare del mal di gambe con l’amico con cui condividevo la stanza. Lui mi rassicurò che il primo giorno è sempre duro, ma dal secondo giorno ci si abitua. Nel pomeriggio la meditazione divenne più difficile per il dolore di gambe. Stavo facendo del mio meglio ma il tempo sembrava così lungo, non potevo concentrarmi bene, e aspettavo solo la fine della seduta. Venne il momento della cena, una breve interruzione e di nuovo lo zazen. In qualche modo vennero le 9 di sera e sentii un grande sollievo per aver terminato la giornata. Nelle ultime istruzioni Padre Lassalle ci consigliò di non allentare mai la concentrazione, impegnandoci al meglio nello zazen, come se fosse una questione di vita o di morte.

Il secondo giorno cominciai lo zazen di nuovo con tutta la forza ma compresi che le gambe ancora facevano male.
La conferenza di Padre Lassalle fu circa l’effetto della meditazione Zen, e fui colpito e ripresi speranza quando lui parlò di “Joriki”, la forza spirituale che viene dalla meditazione. Qualcosa che migliora le funzioni di tutto il corpo e allevia anche il dolore. Il pomeriggio sedere in zazen divenne di nuovo molto difficile. Capii che non stavo migliorando, ma perdendo coraggio. Non mi stavo concentrando, ma soltanto desideravo fortemente che la seduta finisse presto. Qualche volta perfino contavo i miei respiri fino a cinquanta, immaginando che nel frattempo il gong avrebbe certamente segnalato la fine della seduta. Qualche volta il dolore era così forte che tutto il mio corpo tremava, e quando mi alzavo alla fine della seduta non potevo stare in piedi. Cominciavo a dubitare che avrei potuto finire i cinque giorni di meditazione zen. Alla seduta della sera le cose peggiorarono. Cominciai a pensare che il giorno seguente, avrei potuto prendere l’autobus al mattino presto e abbandonare il sesshin. Forse non ero preparato fisicamente, forse ero troppo stanco, avrei dovuto fare più esercizio fisico prima di andare a un sesshin. Avrei potuto fare meglio la prossima volta.
Ricordai la fiducia che avevo in me stesso quando cominciai il giorno prima. Veramente volevo praticare zazen, e spesso dicevo agli amici che lo zazen era per me. Lo Zazen era il modo per approfondire l’intuizione e comprendere la Verità così com’è. Ero sicuro che era il modo di vivere adatto a me.
Potei vedere che non era una questione di preparazione fisica, ma era come se dovessi morire a me stesso, non solo nelle idee e i sentimenti, ma anche con tutto il mio corpo. Stavo mentendo, stavo prendendomi molta cura del mio caro “Io”. Stavo mostrando agli altri un’immagine spirituale di me, qualcuno a cui piace la meditazione e può praticare zazen. Pensavo di essere “un bravo meditante”, come dicono nello Zen. Ma la bugia divenne chiara a causa del dolore di gambe, la maschera sbriciolò via e mi sentii pieno di vergogna di me stesso. Se avessi lasciato il sesshin il giorno seguente, non sarei mai potuto sedere di nuovo, avrei trovato sempre delle scuse per rimandare la meditazione, o avrei pensato che forse non avevo bisogno di meditazione zen per niente, e potevo benissimo usare soltanto la preghiera cristiana stando seduto comodamente. Non erano solo le mie gambe che stavano facendo male ma tutto me stesso, specialmente il mio orgoglio.
Sentii che le mie guance erano bagnate. Lacrime calde stavano fluendo lentamente dai miei occhi e la mia respirazione era eccitata.

Decisi di non andare via. Volevo finire il sesshin. Volevo praticare zazen, e arrivare all’esperienza di comprendere la Verità come facevano i maestri Zen. Pensai ai martiri cristiani al tempo delle persecuzioni, o ai prigionieri politici in alcuni paesi che sopportano le torture per i loro ideali e che anch’io potevo sopportare un po’ di dolore di gambe. Il giorno seguente quando ebbi la prima opportunità di incontrare Padre Lassalle privatamente, gli dissi sinceramente che non riuscivo più a sopportare il dolore di gambe ma che volevo continuare fino alla fine. Lui mi disse che potevo sedere da solo nella stanza piccola fuori dalla sala di meditazione, così avrei potuto muovere le gambe quando il dolore era troppo forte e non avrei disturbato gli altri. Feci quanto mi disse, ma con un forte sentimento di fallimento vedendo gli altri sedere silenziosi nella sala.
Il quarto giorno non potevo sedere cinque minuti senza muovermi, e fui consigliato di sedere con le gambe diritte in giù lungo il rialzo del posto di meditazione. Il quinto giorno anche la mia spina dorsale cominciò a far male, ma non dissi più niente. Alla fine dell’ultima seduta della sera qualcuno colpì l’asse di legno fuori della sala di meditazione per segnare la fine del sesshin. Prima lentamente, poi più veloce con ritmo crescente, come il suono di una biglia di vetro che cade sul pavimento. I cinque giorni trascorsi mi erano sembrati degli anni e quel suono mi parve un sollievo molto grande, sebbene sentissi che mi stava invitando ad altri sesshin e a un addestramento più lungo.
Quando il sesshin era finito dissi a Padre Lassalle che era stata una grande esperienza per me; era come se fossi morto a me stesso, o a quello che credevo di essere. Lui rise e mi disse che nessuno è mai morto per essere stato seduto in meditazione, che il mio impegno deciso verso la meditazione zen era una buona cosa ma era solo metà della Via, l’altra metà consisteva nel continuare la meditazione per tutta la vita.
Dopo quella volta presi di nuovo parte a molti sesshin. Questi non furono così dolorosi come il primo; poco per volta mi stavo abituando. Non era il dolore alle gambe che diminuiva ma la determinazione che era aumentata con la pratica. Qualche volta potevo sedere realmente in concentrazione profonda e sentirmi a mio agio, ma qualche volta non riuscivo a concentrarmi, preoccupato di diverse cose. La pratica Zen è lenta e richiede lungo tempo, richiede tutta la vita.
Dopo cinque anni ebbi il forte desiderio di approfondire la concentrazione e l’intuizione, dedicando più tempo alla meditazione, sotto la guida di un maestro. Potei ottenere un anno libero da impegni parrocchiali e seguire la guida del maestro Yamada Ko-un di Kamakura, a cui fui presentato da Padre Lassalle. Andai a vivere a Kamakura affittando una stanza e ogni sera dalle 6:30 alle 9:00 frequentavo il San-Un Zendo dove insieme con 20 o 30 altre persone potevo sedere in meditazione e avere quasi ogni sera l’incontro privato col maestro Yamada. Avevamo ritiri zen due volte al mese per tutta la domenica e ogni circa due mesi avevamo sesshin di 4 giorni o 5 giorni.

Il maestro Yamada mi accettò come discepolo il 21 Gennaio 1984. Il suo insegnamento negli incontri privati con me cominciò col primo caso del Mumonkan: “Il cane di Jo-shu” .
“Quando pratichi meditazione, ripeti mentalmente “Mu”( il Nulla) a ogni respiro; non cercare altro se non di divenire una cosa sola con il Mu. Non pensare quando mediti, ma solo ripeti mentalmente “Mu, Mu Mu”, e la prossima volta portami la risposta. Che cosa è il Mu?
Feci quanto mi disse. Ripetevo continuamente Mu quando meditavo; qualche volta mentre viaggiavo in treno, e ogni qualvolta potevo riposare la mente prima di dormire, stavo ripetendo mentalmente Mu. Ma ogni volta che incontravo il maestro Yamada nell’incontro privato, le mie risposte erano soltanto idee e pensieri circa il Mu. Ogni tentativo era rifiutato e non sapevo più che cosa rispondere.
“Non ti ho detto di pensare al Mu, soltanto di portarmelo. Se tu realmente divieni uno con il Mu dovresti capirlo. Ripeti Mu quando respiri, a ogni respiro, non perderlo mai. Se hai distrazioni, ogni volta torna indietro al Mu, torna sempre indietro al Mu, ripeti Mu soltanto come uno stupido, per sempre. Non preoccuparti del significato del Mu. Non è filosofia, non è teologia, Mu è solamente Mu.”
Qualche volta non sapevo come rispondere, e dicevo “sto ancora cercando il Mu.” Lui era tagliente nel rispondere:
“Non devi cercare il Mu, il Mu cerca se stesso. Questo è il Mu”
e guardandomi fisso disse con respiri profondi:
“Mu, Mu, Mu. Tu devi dimenticare te stesso e soltanto ripetere Mu, all’infinito. La pratica del Mu è senza fine. Devi fonderti nel Mu. I tuoi sono solo pensieri, non è il Mu. Impegnati di più, impegnati di più. Non c’è l’Io, non c’è il pensare, c’è solamente il Mu.
Ricorda quanto disse il maestro Harada: Il Mu sta muificando il Mu.”
Quasi ogni volta che incontravo il maestro era la stessa cosa. Cominciai ad avere paura di lui. Stavo facendo del mio meglio, almeno nella mia intenzione.

Ad Aprile un giorno dissi al maestro Yamada che avevo cominciato a frequentare dei corsi sul Buddismo all’università Komazawa di Tokyo, pensando che lui sarebbe stato contento. Ma la sua reazione fu inaspettata. Mi gridò all’improvviso:
“Io non ti dissi di studiare, ti dissi solo di ripetere Mu tutto il giorno. Mu non può essere capito studiando. Devi dimenticare tutto te stesso ed essere una cosa sola col Mu.”
Tentai di spiegare che lo studio non era per capire il Mu, ma soltanto per passare meglio il mio tempo libero. Ma lui fu molto severo.
“Smetti di studiare, e pratica con impegno! Oppure vai via. Se non hai fiducia in me, vai dove vuoi, ma non darmi più fastidio. Sono occupato con molte persone che vogliono realmente praticare.”
Fui scosso da quella reazione e capii come la pratica del Mu doveva essere seria. Sebbene non potessi smettere la scuola, mi promisi di fare veramente tutto per poter mostrare il Mu al maestro, e praticai con più impegno, dedicando più tempo alla meditazione. Dalla sua parte, lui non mi chiese più dello studio, e continuò a guidarmi con tutto il cuore.
Una volta mi disse:
“Tu stai praticando con molto impegno, ma questo non è abbastanza. Devi praticare e meditare come se dovessi morire.”
Non potei dimenticare queste parole. A poco a poco capii che non era questione con quanto impegno facevo, ma una questione di non fare, non di cercare di ottenere qualcosa, ma di lasciare andare ogni cosa, era questione di morire. Non pensare, non desiderare, non desiderare nemmeno di capire il Mu. Cominciai a meditare come un morto. Ogni volta che sedevo in meditazione, ripetevo solamente Mu, immaginando che era la mia ultima seduta, che la mia vita finiva, che non avevo un futuro di cui preoccuparmi, che era l’unica opportunità che avrei avuto in tutta l’eternità. Senza pensare, senza tentare di dare risposte intelligenti al maestro, dicevo solo “non capisco”, o soltanto ascoltavo lui e mi inchinavo in silenzio.
Col tempo ero come posseduto dal Mu, sentivo che la parola Mu detta a ogni respiro stava divenendo come una spina dorsale in me, era come un ruscello che scorreva dentro di me tutto il tempo.
La mia coscienza era molto chiara, ero molto calmo e il tempo della meditazione passava in fretta.
Alcune parole sentite durante il sesshin alla sera, quando il supervisore batte l’asse di legno all’ingresso della sala, col ritmo crescente tipico che segna la fine di ogni giorno, aiutò grandemente la mia concentrazione.


o “Vi dico in tutta sincerità,
Vita e Morte sono una questione importante,
Esse sono fugaci e rapidamente passano via,
ciascuno di voi sia ben sveglio e allontani le illusioni,
sia accurato, e non si comporti secondo il proprio modo di vedere”.
Seppi più tardi che queste parole sono scritte sull’asse di legno all’ingresso della sala di meditazione, secondo le regole del maestro cinese O-baku (850), e gridate ogni sera durante il sesshin per incoraggiare gli studenti a praticare sinceramente.
Il Maestro Yamada osservava attentamente la mia pratica. Un giorno in Giugno mi disse durante l’incontro privato che il Mu era vicino, a portata di mano. Si alzò in piedi improvvisamente di fronte a me e disse: “Guarda bene qui, questo è il Mu!” Compresi che lui realmente era una cosa sola con il Mu, potevo vederlo chiaramente, e desideravo di poter dire lo stesso anch’io.
Durante il sesshin alla fine di Luglio, mentre sedevo meditando come al solito come se fossi morto, rinunciando a tutto, nemmeno pensando più a comprendere, pronto anche ad accettare di essere mandato via dallo Zendo se il maestro Yamada non fosse stato soddisfatto di me, ebbi un’esperienza strana. Il supervisore durante il kinhin mi disse di andare all’incontro col maestro. Congiunsi le mie mani e fatto l’inchino, lasciai la fila per andare alla stanza del maestro. Notai però che non avevo il cartellino del mio nome, e andai indietro alcuni passi a prenderlo dalla mensola. Improvvisamente, in un istante compresi quanto ero stupido nel cercare il Mu, il Mu ero io, Io non ero nulla se non un cartellino con un nome. Quello che sempre credevo di essere, il mio Ego, non era nulla se non un cartellino attaccato a un corpo che va in giro, mangia, lavora, dorme e fa diverse cose.
Quando dissi al maestro che il Mu ero io, e gli dissi la storia del cartellino del nome, lui mi fece delle domande per esaminare se stessi dicendo la verità, e mi disse di tornare al mio posto e meditare più profondamente. Sedetti di nuovo ma non potevo stare tranquillo. Mi sentivo molto eccitato, il mio corpo stava tremando, sudavo, e avevo strani sentimenti, come sogni. Era come se qualcosa dentro di me si stava gonfiando e spingeva forte, il mio corpo si stava tagliando e stava aprendosi in fuori. Una specie di nebbia avvolgeva tutte le cose intorno, il mio corpo stava sbriciolandosi a pezzi e scomparve, tutte le cose intorno erano come gusci d’uovo che si aprivano, erano vuoti e si rompevano a pezzi. Era come un sogno che mostrava il vuoto di tutte le cose.
In ogni modo la meditazione era più importante e divenni quieto e continuai a ripetere Mu. Ero molto felice, e ogni persona, ogni oggetto intorno a me, sebbene quieto e zitto, era come sveglio e vivo. Tutto era così naturale e perfino i suoni e i rumori che prima disturbavano la meditazione, ora mi riempiva di gioia.
Il maestro Yamada più tardi mi disse:
“Tu hai aperto un piccolo buco nella realtà, e ora puoi cominciare a meditare e praticare per tutta la vita. La realtà è come un grande palazzo. Tu hai solo guardato dentro attraverso un piccolo buco nel muro di cinta. Ora devi andare alla porta d’ingresso, devi aprirla ed entrare nelle stanze, facendo della stanza più interna la tua abitazione permanente.
Continua a sedere in meditazione ogni giorno.”
Per un altro mezzo anno ricevetti quasi ogni giorno la guida del maestro Yamada, poi ritornai al lavoro della parrocchia, e lo vidi soltanto alcune volte all’anno quando era in vita.

Sto ancora cercando un buon maestro, e nel frattempo il mio nuovo Zendo è la vita di ogni giorno. Ogni persona che incontro o con cui lavoro ogni giorno, tutto quanto accade nella mia vita sta mostrando il grado del mio morire all’Ego. Affetti e antipatie, essere feriti da situazioni sgradevoli, o essere ottusi al bisogno degli altri, tutto questo è il termometro della forza dell’Ego.
Personalizzare l’esperienza, morire la Grande Morte e ritornare in vita, alla Grande Vita è un addestramento di lunga durata. Tra gli inganni di ogni giorno, la Vita Grande ed Eterna sta mostrando la sua faccia.