Dal lat. corpulentia, der. di corpus -ŏris ‘corpo’ •sec. XIV. Grossezza pronunciata del ventre; per estensione imponenza
La pratica spirituale nasce da una ricerca interiore, da un senso di malessere, insoddisfazione, di separazione dal resto, di sofferenza, di dukkha. La ricerca è individuale, lo sforzo è individuale, ci si siede da soli sullo zafu per praticare zazen e nessun altro, nemmeno il Buddha in persona può farlo per noi. Il cerchio, il simbolo della realizzazione, dell’uno e del due che si fonde in unità nel non uno non due. Una ciotola e un kesa, null’altro.
In questa ricerca spirituale ci sentiamo soli, abbiamo bisogno di qualcuno, qualcosa che ci sostenga, i saggi del passato, le tradizioni, altri praticanti, un maestro. Il Buddha stesso ha seguito dei maestri prima di illuminarsi. Ed allora nascono i dojo con l’intento dichiarato di aiutare gli altri, di diffondere lo zen, di praticare insieme, ma anche con intenti meno luminosi quali vedere dove stanno gli altri e quindi io, esercitare il potere spirituale sugli altri, sentirsi piccoli maestri. Nasce la voglia di essere riconosciuti, quel riconoscimento che non ci danno i genitori, la società, la famiglia. Fa parte del percorso spirituale, non si attraversa un fiume senza bagnarsi e per arrivare sull’altra sponda troppa acqua dobbiamo ancora bere. E poi proprio l’acqua che beviamo e che ci bagna, che pensiamo che sia dannosa in realtà se usata bene è la fonte principale di risveglio.
Perché pratichiamo? Per essere riconosciuti, per comandare, per insegnare, per avere un posto nella società, per stare con gli altri? Nella pratica individuale, nel silenzio e nell’immobilità di zazen queste illusioni, questi bonno, scompaiono e rimane solo la pratica, nel suo cerchio che non inizia e non finisce.
Ma gli zafu aumentano, le vesti ed i kesa si colorano e compaiono i primi bastoni e ventagli. E’ difficile rimanere nel cerchio, è scomodo rimanere nel cerchio meglio la piramide, soprattutto se sono in alto. La società zen prende corpo, diventa sempre più grande e corpulenta, cento, mille zafu, il Giappone ci coccola è difficile rimanere cerchio.
D’altra parte una società ha bisogno di organizzazione, di regole, finché ero da solo al dojo potevo alzarmi ed uscire, adesso dobbiamo armonizzarci, in senso orario per entrare ed antiorario per uscire. Prima potevo mangiare come volevo, adesso una ciotola, poi due tre quattro cinque ciotole. Tutto questo serve per non distrarsi, per rimanere concentrati … ma quanto è bello il potere della conoscenza. Non importa che lo zen dica di bruciare i libri, IO conosco le regole e gli altri no, IO vi dico come si fa, IO sono quello riconosciuto che può decidere.
E così il cerchio è semplicemente il ricordo ed il pensiero del triangolo, senza alcuna autenticità.
Ma il pugno può sempre ritornare mano aperta, basta che lasci andare la presa, se una stanza è stata buia per secoli, basta un secondo di sole per illuminarla. E così come bambini che giocano da soli tutti insieme nella Via, è possibile praticare insieme nella solitudine del proprio zafu.
Non confondiamo una pratica individuale con una pratica individualista! Non permettiamo alle nostre paure di bloccarci, e non temiamo di far male, anche il Buddha ha praticato l’ascetismo, se sbagliamo facciamo gassho, e proviamo un’altra strada. Gli zafu aumentano e qualcuno deve pur organizzare la nuova società, è una sfida difficile, molte forme spirituali sono fallite proprio a questo livello, ma qualcuna ce l’ha fatta.
Giapponesizzare lo zen occidentale? Forse, ma non credo. Occidentalizzare lo zen giapponese? Se voleste comunicare con un italiano gli parlereste forse latino? La lingua non cambia lo spirito, altrimenti cosa avrebbero di comune Buddha, Bodhidarma e Dogen?
Questa è la nostra sfida, dopo la venuta dello zen in Occidente e la sua diffusione, adesso bisogna consolidarlo, ma come? A carnevale il cerchio si traveste da triangolo, e si diverte a mascherare i triangoli da cerchio, qualcuno ne rimane incastrato ma sempre con lo spirito della goccia d’acqua che sa che prima o poi si ricongiungerà nell’immensità dell’oceano.
Josuel Shindo Ora