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Quello che colpisce maggiormente quando si entra ad Eiheiji è il suo profumo, un misto di legno, incense e pratica, un profumo fresco, profondo, ma non nuovo, delicato, elegante, penetrante, che entra dentro e pervade tutto il corpo e lo spirito.
Dopo otto ore di viaggio, tra treno e taxi, arriviamo finalmente ad Eiheiji. E’ buio e piove, scendiamo dal taxi e varchiamo una delle porte laterali, non è l’entrata principale, quella famosa, dove si passa solo due volte nella vita, ma d’altra parte noi siamo monaci turisti, anche se privilegiati, e giustamente non possiamo accederci.
Il monaco responsabile del gruppo ci dà alcune indicazioni su come comportarci, siamo addestrati ma ad Eiheiji non è mai abbastanza. Per tutto il tragitto cerco di rispettare le indicazioni date, “guardare in giro ma con molta discrezione”, “rimanere in fila”, voglio apparire preciso, non commettere errori, non voglio che pensino che pratichiamo uno zen lascivo. Cerco comunque di sbirciare tra i vari edifici, di capire come orientarmi, è tutto bellissimo. Anche se vedo poco, i corridoi di legno, qualche scala, edifici in lontananza, la pima impressione è molto forte. Poi con tutte le valigie saliamo quelle scale infinite, senza strisciare le valigie per non fare rumore, pensiamo che sia più educato, sempre più su fino all’Hatto al punto più alto. Ed ecco che proprio nei pressi dell’hattoquell profumo profondo, incommensurabile, meraviglioso, non importa quante scale ho fatto, o quanto sia pesante la valigia o quanto sia stanco, quel profumo vale tutto il viaggio. In quel profumo c’è la storia di Eiheiji, la pratica quotidiana, i diecimila incensi e le diecimila cerimonie, la pulizia dei corridoi, il lavoro dei praticanti, in quel profumo c’è Dogen che pratica accanto a me. Vorrei trattenerlo, portarlo con me, provo a respirare più profondamente, ma non e’ possibile, per quanto li amiamo i fiori appassiscono, ma il mio ego non l’ha ancora capito e continua a respirare più profondamente.
Arriviamo in camera, ci cambiamo e siamo pronti per fare zazen. Il primo zazen ad Eiheiji … che emozione! Praticare ad Eiheiji è un sogno per qualsiasi praticante zen, sopratutto se Occidentale. Nel silenzio dello zazen sentivo lo scorrere dei fiumi e delle montagne, il canto delle valli e dei monti, probabilmente gli stessi suoni che Dogen stesso sentiva durante zazen o forse no, ma non ha importanza, perché dentro di me sento quel filo rosso che mi lega a Lui, alla tradizione, allo zen e all’abate di Kotaiji. Fino a quel momento non avevo capito perché per l’abate fosse così importante che noi venissimo ad Eiheiji, mi chiedevo perché un tale investimento economico ed energetico per monaci per di più occidentali che andranno via fra pochi mesi. Ma durante quello zazen tutto mi è apparso chiaro, Eiheiji è come quella parola giusta detta al momento giusto, è il suono di un bamboo, un sasso che cade nell’acqua, l’immagine della luna riflessa nello stagno, Eiheiji è il suono della campana suonata perfettamente al tempo giusto. Così durante quello zazen i miei occhi si sono bagnati di lacrime di gratitudine per l’abate che ci ha donato questa esperienza, per Eiheiji che ci ha accolto, per tutti i praticanti che mantengono viva la pratica, per Dogen che ha iniziato tutto questo.
Finito zazen si torna in stanza, novantatre gradini dal Sodo all’Hatto e ancora quel magnifico profumo.
Un’altra cosa che mi ha colpito di Eiheiji è il suo funzionare come struttura, dove il singolo non conta, conta solamente Eiheiji. Non interessa a nessuno cosa voglio, cosa mi piace o non mi piace, quali sono i miei interessi, ad Eiheiji ci sono delle cose che si posso fare o meglio che si devono fare e altre che non si devono fare.
Così quando si mangia, si mangia senza scegliere cosa mangiare, si mangia quello che viene offerto, con un piccolo margine di libertà sulla quantità. Non è diverso dagli altri monasteri, ma Eiheiji è Eiheiji.
Della cucina giapponese c’è un piatto sopra gli altri che proprio non posso mangiare: i natto,fagioli fermentati avvolti da strani filamenti, considerati una prelibatezza dai giapponesi, ma molto distanti dal gusto europeo-italiano. Mi erano già stati serviti a Kotaiji, ma in quella occasione con abili mezzucci ero riuscito ad evitare di mangiarli. Ma il Karma non si brucia così facilmente e quella sera come piatto speciale vengono serviti proprio i natto. Quella stessa sera però succede anche un’altra cosa: ero così concentrato sull’orioki, sul dispiegare bene il tessuto, sul non far cadere le bacchette che mi dimentico totalmente di avvolgere la ciotola grande, quella del Buddha e metterla da parte, come si usa fare nei pasti informali. Così quando mi servono il riso, con grande disappunto del Jonin, mi servono il riso nella ciotola grande, e mi si palesa chiaramente l’errore. Ad Eiheiji come nei monasteri gli errori non sono previsti e non esistono procedure da seguire quando si commettono, è lasciato alla sensibilità personale. Mi guardo intorno, gli altri non sembrano aver visto troppo il mio errore, devo fare qualcosa, mangio i piatti speciali, poi il contenuto della terza ciotola quello della seconda e sposto il contenuto della prima nella seconda, sposto il riso dalla ciotola grande all seconda, poi con l’attenzione di un ladro durante un furto tolgo il tessuto da sotto le altre ciotole, le bacchette rimangono al loro posto e avvolgo la ciotola grande, adesso il mio orioki è uguale a quello degli altri e nessuno sembra accorgersene più di tanto … ma i Natto sono finiti! Senza rendermene conto, senza pensare a ciò che mi piace o no, senza proteste da parte del mio ego, avevo finito uno dei piatti fino a pochi secondi prima totalmente immangiabili. Quante costruzioni mentali! Solo Eiheiji poteva riuscire a farmi mangiare i natto.
Alla fine della cena si torna in stanza e si attraversa ancora quel profumo e tutti gli errori, tutte le illusioni, tutte le costruzioni mentali, diventano parte di quell profumo.
Che cosa sono stati questi tre giorni ad Eiehiji? Tanti piccolo momenti da ricordare e da raccontare, la gentilezza dei praticanti, il samu all’aperto con i monaci, lo zaino da viaggio di Dogen, il sorriso dell’insegnante che ci accompagnava, l’imbarazzo a mangiare il dolce durante il thé con l’Ino, i monaci che portanto i sutra durante le cerimonie e quel profumo, profondo, incommensurabile, meraviglioso.
Horyu